”A EGREGIE COSE IL FORTE ANIMO ACCENDE…” IN RICORDO DI DAVIDE ASTORI. La fibrosi del cuore uccide l’atleta
di Eligio Piccolo
11 Gennaio 2019

Giovan Battista Morgagni, fu un patologo insigne dell’Università di Padova nel secolo dei lumi, il ‘700, perché portò alla luce moltissime cause di malattie guardando al microscopio i tessuti del corpo umano che non avevano più vita.

Fra le tante “egregie cose” individuò nel complicato groviglio del cuore l’origine di un suo possibile arresto, responsabile di morte improvvisa. Che più tardi sarà completato da altri ricercatori e passerà alla Storia della Medicina come sindrome di Morgagni-Adams-Stokes. Gli anglosassoni spesso omettono il primo nome, così come hanno fatto con Meucci e altri stranieri, per quel complesso di Popov che talvolta prende le grandi potenze. Morgagni, a quei tempi così lontani dalle moderne conquiste della fisiopatologia, aveva anche chiaro il concetto di morte improvvisa: “la morte che, attesa o inaspettata, uccide l’uomo repentinamente”.

Oggi su quella cattedra patavina è stato insediato fino all’Emerito un suo degno successore, che iniziò negli anni sessanta con la vocazione all’anatomia-patologica, e conseguendo poi tutta una serie di lodi, dalla laurea all’insegnamento. Fin da giovane assistente egli fu attratto dalle malattie di cuore, che data la loro diffusione e la tecnologia diagnostica molto sviluppata avevano raggiunto in pochi decenni il massimo interesse. Pensò che prima di addentrarsi nello studio del post-mortem, dovesse prendersi la specialità in cardiologia onde potersi sentire più vicino al tragitto che porta il cardiopatico malcapitato da Lachesi ad Atropo, le moire che per gli antichi decidevano sul nostro destino. Fu a quei tempi che lo conobbi e mi dimostrò il suo interesse per l’elettrocardiografia, che allora insegnavo con molta passione. Nacque un’amicizia, saldata da un’indefinibile empatia e dall’interesse ai tanti problemi scientifico-umani, che ancora ci coinvolgono con allegria.

Gaetano Thiene è il desso, degno successore di Morgagni, che da sempre mi è parso uno di quei talenti che, come nella famosa Parabola, li ha messi a frutto da uno a dieci, a differenza dei tanti avvocaticchi di ingegno che finiscono con logorare anche quelli di partenza.
Capì subito che i tanti giovani atleti, anche i top level, gli assi, quelli che sfortunatamente chiudevano la loro esistenza per cause lì per lì inspiegabili, e che rimanevano tali perfino dopo la verifica del perito settore, dovevano averne una. E si doveva quindi andare a fondo nella ricerca.

In stretta collaborazione con i colleghi della Cardiologia di Padova di Dalla Volta e poi anche con quelli di altri centri italiani, europei e d’oltreoceano, egli dette un forte contributo all’individuazione delle malattie più insidiose. In particolare una rara e subdola che colpisce il muscolo dei ventricoli, la quale pare si sia insinuata soprattutto nei cromosomi della gente veneta, la cosiddetta cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro. Paroloni, che però, se mi si concede la semplificazione e in un certo senso la banalizzazione della loro complicata genetica, usando un  fantasioso gergo giornalistico che talvolta mi sorregge, forse ci stanno a dire che il muscolo del cuore di alcuni soggetti, chissà per quale strano inghippo ereditario, si porta dietro un gene aggressivo di “antichi Unni”, capace di scompigliare il miocardio e renderlo fonte di aritmie fatali.

A Thiene toccò oggi, assieme a Carlo Mareschi di Udine, la supervisione dell’autopsia sul giovane atleta fiorentino, Davide Astori morto nel sonno la notte prima della partita con l’Udinese. Dopo che sei anni prima fu incaricato di chiarire, assieme alla sua brava collaboratrice Cristina Bassi,  quella di un altro sfortunato calciatore, il Morosini del Livorno, colpito sul campo del Pescara da un’aritmia fatale. La causa fu allora chiarita in una rara forma di quella complicata e misteriosa malattia “veneta” del muscolo cardiaco, la quale stranamente in Morosini si era insinuata nel ventricolo sinistro anziché nel destro.

Il trentunenne capitano dei Viola spirò durante la notte nel letto di una camera d’albergo a Udine e i compagni che andarono per svegliarlo non trovarono segni di una sua reazione, come se, scrissero l’indomani, fosse insensibilmente passato dal sonno fisiologico a quello eterno. I primi dati che i periti si assicurano in questi casi sono quelli relativi ai precedenti familiari e personali del de cuius, che a quel livello di sport agonistico vengono controllati annualmente nei centri di medicina sportiva. La fedina sanitaria di Davide Astori era assolutamente pulita: assenza di disturbi precedenti, nessuna morte improvvisa nell’albero familiare, esami di laboratorio normali, elettro ed ecocardiogrammi, nonché test da sforzo, senza sospetti evidenti.

La prima sorpresa all’autopsia, mi è stato riferito, è che il decesso non fu come apparve a tutti quando lo videro sul letto, ancora in posizione di riposo, come se il cuore si fosse fermato in pochi secondi. Bensì che il travaglio aritmico prima di quell’arresto si fosse prolungato per minuti. Inspiegabile quindi sia che l’Astori non si fosse alzato per cercare l’aria che i polmoni gli richiedevano sia che non avesse chiamato aiuto. La seconda sorpresa è che il cuore, apparentemente normale nel colore e nella grandezza, non presentasse alcun segno dell’infarto che molti avevano ipotizzato e che le coronarie fossero integre, come quelle di un fanciullo. L’arcano era invece nascosto nel ventricolo destro, dove minuscole cicatrici e degenerazioni avevano realizzato quella cardiomiopatia cui Thiene, la Bassi e altri cardiologi avevano dedicato una vita, proprio la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro. Della quale il difensore della Fiorentina non aveva avuto alcun segno o sintomo in precedenza. Ma la sua origine, nel bergamasco, lo fa rientrare geneticamente nella terra veneta, dominion della Serenissima.

A guardare quelle piccole fibrosi che Thiene mi ha mostrato, quasi nascoste in mezzo al muscolo cardiaco normale, uno si domanda come, scusate l’espressione napoletana irriguardosa, “na caccariella e’ mosca” possa da sola chiudere una giovane vita. La stessa domanda che si sono posti i finlandesi dell’Università di Oulu capeggiati da Juhani Junttila (Circulation, giugno 2018). I quali con un’accuratezza degna di antichi certosini hanno analizzato sotto il profilo genetico 145 casi di morte improvvisa, verosimilmente dovuta alla fibrosi nel muscolo cardiaco, posto che non vi erano individuabili altre cause, osservando che una grande percentuale di questi malcapitati avevano varianti genetiche proprie di quelle cardiopatie che possono  dare la fine improvvisa, ossia le cardiomiopatie del ventricolo destro, le dilatative e le ipertrofiche. Sono ancora risultati molto incompleti, che fanno però intravedere un comune denominatore cromosomico, capace di insinuarsi nel muscolo del cuore  con una fibrosi che talvolta, ma non sempre, costituisce la base per un’aritmia fatale.

Alla fine di questa nobile cronistoria medica di tante impreviste e imprevedibili tragedie dobbiamo  constatare che, nonostante i grandi progressi della ricerca nel prevenire la morte improvvisa, questa ancora si nasconde dentro quella che i veneziani chiamano “fatalità”, e sembra quasi farsi beffe dei Morgagni, dei Thiene, delle Bassi, dei Junttila e dei tanti altri che l’hanno scovata e che con meraviglioso entusiasmo continuano ad inseguirla. In attesa, dico io, che qualcuno riesca a prevederla in tempo o, magari, capire quale atleta non può cimentare il suo cuore.

Eligio Piccolo
Cardiologo