Credo che il mestiere di propagandista farmaceutico, oggi corretto con informatore, esiga grande dedizione, dovendo questi laureati in farmacia o medicina sostare per ore in attesa che il medico di base abbia terminato l’ambulatorio o quello ospedaliero sia libero dagli impegni di corsia o di esami. Un’attesa spesso in piedi, come se dovessero pagare il disturbo di imbonire il medico della loro mercanzia, qualcuno però “colpevole” di un’insistenza che induce alla scortesia. In realtà questi informatori devono dimostrare alla Casa madre di essere riusciti a far prescrivere i loro farmaci, che spesso sono gli stessi prodotti da altre Ditte più o meno prestigiose. Il medico conosce tutto questo retroscena e, mentre non gradisce il pistolotto che l’informatore deve sciorinargli così come gli hanno comandato, assume atteggiamenti diversi secondo la simpatia dell’interlocutore, l’importanza o la novità del farmaco e magari del gadget che distrattamente gli ha lasciato sul tavolo. Non soldi, ci mancherebbe, ma la penna, un testo della specialità richiesto o un fonendoscopio. Ci sono anche altri personaggi fra questi informatori dei medici, che hanno funzioni più precise, quali la vendita e gestione di apparecchiature o l’organizzazione di sperimentazioni di farmaci, cui è riservata in genere una corsia preferenziale.
Fra tutti questi, diciamo così, collaboratori a latere me n’è rimasto in memoria uno, che forse aveva iniziato la carriera proprio come informatore di base di una ditta italiana, non fra le internazionali, anzi decisamente domestica, il quale per l’epoca in cui operò (anni ’50 e ’60) e la capacità imprenditoriale va considerato un innovatore, direi senz’altro un pioniere. Ebbe l’iniziativa, impensabile fra questi “porta a porta”, di pubblicare due corposi volumi sull’Infarto Miocardico, non scritti da lui si capisce, ma dai migliori clinici italiani e mondiali, sotto forma di intervista. Ben 157 (!) e tutti di fama o qualificati. In un’edizione così prestigiosa, anche sotto il profilo della veste tipografica, che accadde che coloro i quali avevano rifiutato di collaborarvi perché il prodotto nasceva non dagli atenei ma dal “mercato”, fecero conoscere a posteriori all’ideatore la loro rimostranza per non averli informati adeguatamente sull’importanza e il successo che avrebbe conseguito.
Uno di loro che voleva distinguersi dal mucchio, il più prestigioso della medicina universitaria italiana di allora, pretese l’aggiunta di una sua lettera di presentazione di ben otto facciate, scusandosi alla fine della laconicità, inserita dopo quella del presentatore ufficiale, il clinico bostoniano Paul D. White, che la contenne in tre.
L’infarto del cuore in quegli anni era appena uscito da un semi anonimato grazie ai patologi che ne andavano descrivendo sempre più spesso la presenza anatomica e le sue conseguenze in molte autopsie, ma soprattutto agli elettrocardiografisti che, usciti dal ruolo di supertecnici dediti a una materia da ingegneri, diventavano i privilegiati conoscitori di una tecnica diagnostica indispensabile, e che finalmente gli ospedali se la potevano permettere anche sotto il profilo economico. L’argomento quindi cominciava ad avere molto interesse nonostante fossimo ancora lontani dai molti progressi con i farmaci risolutori, i bypass chirurgici, le Unità Coronariche e l’angioplastica con palloncino e stent; che consentiranno decenni dopo le meraviglie terapeutiche e l’allungamento della vita media. Gli estensori di quell’opera infatti portavano la loro esperienza, che si basava soprattutto sull’elettrocardiogramma, sugli enzimi, sugli aspetti anatomici e sulla clinica di quella malattia, sottolineando finalmente l’importanza dei fattori di rischio che ne facilitavano il divenire attraverso lo sviluppo dell’arteriosclerosi. Ne risultò un vero compendio di aggiornamenti, ma anche di storia della medicina per chi vorrà nel futuro rivivere l’evoluzione del pensiero umano in un capitolo tanto importante della cardiologia.
Il dottor Renzo Brusca, il pioniere di quell’iniziativa, mi telefonò anni dopo mentre lavoravo nel Veneto perché mi considerava un figlio di quei personaggi che egli aveva contattato. Mi raggiunse in reparto con la sua rappresentante locale. Indubbiamente un bell’uomo, benché vicino alla settantina, alto, elegante, dalla conversazione sciolta e piacevole, empatica si direbbe oggi. Che mi fece capire, dopo aver scorso i due volumi che portò in omaggio, come avesse potuto convincere tanti professori a redigere il loro pensiero, corredato di tante figure e tabelle. Lodai il tocco intonato della sua cravatta e subito voleva farmene dono, un gesto un po’ sopra le righe poteva sembrare, ma che in lui faceva parte del personaggio, decisamente singolare e positivo. Mi invitò a pranzo nel miglior ristorante del luogo, e qui la conversazione si fece quasi confidenziale, aiutata dall’ottimo Prosecco, e che rivelò i molti risvolti collegati agli approcci che aveva avuto con tanti medici famosi, quasi tutti disponibili, ma qualcuno, come ho detto, diffidente. Venni a sapere che aveva un figlio in carriera cardiologica universitaria, che anni dopo avrei conosciuto, certamente degno della genetica. Ma il padre nel suo campo aveva lasciato un segno tutto nuovo da ricordare.
Eligio Piccolo
Cardiologo