E’ più di qualche anno che la evidence-based medicine esercita la propria pressione sui dottori: “abbracciarla” equivarrebbe a trattare i pazienti nel modo migliore secondo lo stato delle attuali conoscenze e proteggerebbe anche i vessati medici da denunce, avvocati e onerosi risarcimenti e così pure gli ospedali. A guardarla con un po’ di faciloneria la evidence-based medicine genera comportamenti semplici: per una certa diagnosi A il clinico deve utilizzare le procedure B e le medicine C o D come documentato dall’evidenza.
In realtà, già nell’ormai lontano 1996, in un articolo pubblicato sul British Medical Journal dal titolo “Evidence-based medicine: what it is and what it isn’t” si affermava: “Evidence-based medicine is the conscientious and judicious use of current best evidence in making decisions about the care of individual patients”. Se vi fosse ancora necessità di precisare quello che è l’antico compito del medico questa espressione vale a dire che con coscienza e discernimento il clinico deve utilizzare le informazioni che gli giungono dall’evidenza per prendere decisioni e curare l’individuo paziente, la persona appunto unica nella sua individualità per caratteristiche come età, fragilità, comorbidità, ad esempio, e valori personali o altro.
Con il progredire dell’età degli ammalati il compito di chi si trova ad applicare la medicina basata sulle evidenze diviene sempre più arduo. Assimilare il paziente che si ha davanti a coloro i quali sono stati arruolati in un trial che ha generato determinate conclusioni è sempre più difficoltoso: le comorbidità sono tante, i pazienti sono “fragili”, le diversità biologiche e legate agli stili di vita e all’ambiente sono numerose anche esse.
L’ACCORD-BP Trial ha mostrato che un target di pressione arteriosa sistolica pari a 120 mmHg, paragonato ad un target di PA <140 non migliorava l’outcome composito di eventi cardiovascolari maggiori fatali e non. Per di più, coloro che erano stati trattati nel braccio intensivo avevano un numero maggiore di eventi avversi. D’altro canto lo SPRINT Trial ha documentato che un trattamento intensivo della PA comporta una significativa riduzione degli eventi cardiaci. Come assimilare il proprio paziente a quelli entrati a far parte dell’uno o dell’altro trial? Valutando i criteri di inclusione/esclusione? O tutte le caratteristiche basali dei pazienti inclusi negli studi? Oppure ..il paziente ..medio!?
Un gruppo di studiosi dell’università di Chicago e della Cleveland Clinic con un approccio elegante ha costruito un Trial Score per paragonare i pazienti appartenenti all’uno o all’altro studio e, senza entrare nel dettaglio del lavoro, è arrivato alla conclusione, che potrebbe sembrare ovvia, che i pazienti ACCORD nella distribuzione gaussiana vicini a quelli SPRINT beneficiavano anche essi del trattamento più intensivo della pressione arteriosa.
D’altronde, solo per fare un esempio, una donna di 80 anni con un valore di creatinina pari a 2 mg/dL e che rispetta i criteri di inclusione nello SPRINT Trial è entrata a far parte dello studio. Alla chiusura dello studio di più di 9300 partecipanti dello SPRINT solo 35 avevano un’età superiore agli 80 anni e un valore di creatinina pari o superiore a 2 mg/dL e, soltanto in 10 erano donne! E quindi quanto è corretto trarre semplicisticamente delle conclusioni generali? Lo spunto di riflessione che questo studio offre al clinico che si occupa della cura del suo paziente è davvero stringente.
Antonella Labellarte
Cardiologa
Ospedale S. Eugenio, Roma