In base ai dati raccolti nelle prime aree colpite dalla pandemia, come la Cina, complicanze acute cerebrovascolari sono presenti nel 5-6% dei pazienti con COVID-19 severo 1. La presenza di tali complicanze, nel contempo, si associa ad un aumento della probabilità di peggioramento clinico nei pazienti con infezione da COVID-19 2.
In particolare, un lavoro pubblicato molto recentemente su New England Journal of Medicine da Thomas J. Oxley, Neuro-interventista del Mount Sinai Hospital di New York, ha posto l’attenzione sull’incremento di ischemia cerebrale da occlusione di grossi vasi in pazienti COVID+ , giovani e spesso senza rilevanti fattori di rischio 3.
L’articolo descrive cinque casi di ischemia cerebrale acuta da occlusione di grossi vasi, di cui quattro trattati con procedura endovascolare di trombectomia. Tutti i pazienti presentavano età inferiore ai 50 anni. Due pazienti non erano affetti da patologie pregresse e soltanto uno aveva esiti di malattia cerebrovascolare in trattamento cronico farmacologico (tabella 1 – caratteristiche cliniche).
I suddetti casi sono stati trattati nell’arco di due settimane mentre, nella medesima struttura ospedaliera, nel corso dei precedenti 12 mesi, il tasso di pazienti con meno di 50 anni di età trattati con procedura di trombectomia per ictus ischemico è risultato soltanto di 0.73 ogni due settimane.
Nonostante i dati a disposizione siano limitati, appare dunque verosimile ipotizzare che l’incidenza di ischemia cerebrale da occlusione di grossi vasi nei soggetti giovani affetti da COVID-19 sia più di cinque volte superiore alla media, per lo meno all’interno del dipartimento di appartenenza degli autori, situato nella città di New York, interessata da un focolaio epidemico di severa portata.
Interessante notare anche che in un articolo sul “Washington Post” datato 25 Aprile, Oxley descrive una procedura di trombectomia affermando che “mentre usava un dispositivo simile ad un ago per estrarre il coagulo, notò la formazione di nuovi coaguli in tempo reale attorno ad esso”. Ciò appare come una affermazione impattante a livello giornalistico, ma assume anche contorni scientificamente rilevanti, in quanto presuppone meccanismi patogenetici fuori dall’ordinario, come testimoniato anche dalla frequente associazione con altri disturbi della coagulazione come embolia polmonare o trombosi venose.
MECCANISMI POTENZIALMENTE IMPLICATI
E’ noto che l’infezione da COVID-19 può indurre anomalie in test di laboratorio come trombocitopenia, elevati livelli di d-dimero, tempo di protrombina prolungato, sino a quadri di coagulazione intravascolare disseminata, che può portare allo sviluppo di trombosi 4. Diversi commenti allo studio sopra riportato ipotizzano anche alcuni meccanismi specifici, come ad esempio il coinvolgimento dell’angiotensina 2, potente vasocostrittore, dato che il virus lega il recettore ACE. Un commento pone l’attenzione sulla assenza di esecuzione di metodiche strumentali per l’eventuale riscontro di PFO, dato che una trombosi venosa correlata al COVID-19 potrebbe favorire una embolia paradossa verso il circolo intracranico, meccanismo ipotizzabile soprattutto nei giovani pazienti.
Una lettera pubblicata appena pochi giorni fa dal gruppo dello University College di Londra analizza le caratteristiche di sei pazienti affetti da COVID-19 e ischemia cerebrale e pone l’attenzione su ulteriori concetti 5. Tre di questi pazienti presentavano infatti lesioni cerebrali in territori multipli, in due casi l’evento ischemico è avvenuto nonostante terapia anticoagulante già impostata e due pazienti erano affetti al contempo da tromboembolismo venoso. In quasi tutti i casi l’insorgenza dei sintomi dell’infezione ha preceduto di almeno otto giorni l’ischemia cerebrale, eccetto un paziente ancora in fase pre-sintomatica, suggerendo dunque che la complicanza cerebrovascolare può apparire anche precocemente rispetto ai disturbi respiratori. Interessante anche notare come cinque pazienti su sei presentavano positività al test per il Lupus Anticoagulanti, consentendo di ipotizzare una sindrome da anticorpi antifosfolipidi secondaria. In tutti i casi era presente un valore di d-dimero mediamente ben più alto di quanto riportato nella generalità dei pazienti COVID-19+.
E’ attualmente in revisione un articolo multicentrico americano che ha già arruolato 12 pazienti trattati per occlusione di grossi vasi, di cui il 40% con età inferiore ai 50 anni.
FUTURI APPROCCI E DOMANDE IN ATTESA DI RISPOSTA
Alcune società scientifiche hanno già improntato dei protocolli standardizzati dedicati alla organizzazione delle procedure di rivascolarizzazione per ischemie cerebrali acute durante la pandemia COVID-19 6, volti in particolare a ridurre i rischi per pazienti e operatori. Si raccomanda, ad esempio, di effettuare contestualmente alle neuro-immagini una TC torace, di evitare quando possibile l’intubazione o, se necessario, di eseguirla tramite circuiti di ventilazione chiusi prima dell’eventuale arrivo in sala angiografica e, infine, utilizzare scale di gravità sistemica quali criteri prognostici per indicare coscientemente i trattamenti di trombolisi e.v. o trombectomia.
Ma dal dibattito sulla ottimizzazione della gestione e del trattamento di tali pazienti emergono molti altri interrogativi:
Sulla base anche delle conoscenze già acquisite riguardo il trattamento dell’ischemia cerebrale correlata ad endocardite infettiva, è giusto trattare tali casi con trombolisi endovenosa con le stesse indicazioni e dosaggi dei pazienti no-COVID? Nei pazienti COVID+ con coagulopatia è presente anche un conseguente aumentato rischio emorragico?
Successivamente alla procedura di ricanalizzazione endovascolare, è corretto attendere qualche giorno per l’introduzione di una terapia antiaggregante o anticoagulante in prevenzione secondaria? Quale trattamento scegliere tra i due? Come trattare eventuali trasformazioni emorragiche secondarie alle lesioni ischemiche cerebrali?
Successivamente alla risoluzione dell’infezione, durante il follow-up di tali pazienti, è necessario continuare a prescrivere una terapia anticoagulante o antiaggregante anche nei pazienti giovani e senza fattori di rischio?
Tali domande necessitano di risposte rapide ed efficaci che potrebbero modificare l’attuale gestione delle urgenze neuro-vascolari e valutare nuovi scenari nel trattamento delle ischemie cerebrali.
BIBLIOGRAFIA
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