Una recente analisi (1) di sette studi prospettici, di cui tre studi randomizzati e quattro osservazionali, che hanno riportato risultati sulla qualità della vita utilizzando il Seattle Angina Questionnaire (SAQ), per un totale di 2500 pazienti con occlusioni coronariche croniche (CTO), mostra che la rivascolarizzazione percutanea delle CTO (CTO-PCI) migliora significativamente sintomi e qualità di vita (QoL). Il SAQ è un ben convalidato questionario i cui parametri includono anche la frequenza dell’angina e la limitazione fisica.
Il riscontro di CTO è relativamente comune, osservandosi nel 15-20% dei pazienti con coronaropatia ed ancora più frequentemente, 50%, nei soggetti precedentemente sottoposti a bypass aortocoronarico. A fronte di tale frequenza, però, il trattamento percutaneo delle CTO è abbastanza raro. La maggior parte dei pazienti è infatti avviato a terapia medica e solo una minoranza è sottoposto a rivascolarizzazione: chirurgica (pazienti con malattia multivasale e/o plurime CTO) o, più raramente, percutanea. Solo il 5% di tutte le angioplastiche è infatti eseguito per il trattamento delle CTO e solo il 15-35% delle CTO è trattato percutaneamente. Ciò si spiega verosimilmente con la difficoltà tecnica delle procedure, con il percepito maggior profilo di rischio delle stesse e con la finora mancata chiara evidenza dei benefici del trattamento invasivo.
Lo studio condotto all’Ospedale Universitario di Careggi e recentemente pubblicato su JAMA Network Open (1) ha confrontato l’outcome dei pazienti con CTO-PCI riuscita versus quello dei soggetti in cui la CTO-PCI non ha avuto successo o che sono stati indirizzati direttamente a terapia medica (OMT) senza alcun tentativo di rivascolarizzazione. L’end point primario era costituito dall’esito del risultato del questionario SAQ sulla frequenza dell’angina (SAQ-AF). Il follow-up medio è stato di 14,8 mesi. I risultati del SAQ-AF hanno mostrato, in 5 studi, un miglioramento significativo nel gruppo CTO-PCI di successo, con una differenza di 12,9 (IC al 95%, 7,1 – 19,8) punti di indagine, per una differenza media standardizzata (SMD) di 0,54 (IC al 95%, 0,21 – 0,92 , P = 0.002), rispetto al gruppo senza CTO-PCI di successo. Età, sesso e farmaci come calcio-antagonisti, beta-bloccanti e nitrati non erano associati alle differenze nei risultati.
Analoghi miglioramenti, anche essi significativi, si sono osservati anche relativamente a qualità di vita (SAQ-QoL), con un incremento di 14,9 (95% CI, 7,7 – 22,5) punti di indagine, con una SMD di 0,41 (95% CI, 0,25 – 0,61, P < 0.001) e nel dominio della limitazione fisica in cui si è rilevato un aumento di 9,7 (IC al 95%, 3,5 – 16,2) punti di indagine e una SMD di 0,42 (IC al 95%, 0,24 – 0,55, P < 0,001).
I costi delle disostruzioni delle CTO sono notevoli, sono infatti procedure complesse, organizzativamente onerose per le strutture a causa del lungo tempo necessario, economicamente costose e, non ultimo aspetto, non scevre di rischi, ne deriva, perciò, che anche i benefici attesi devono essere proporzionati. La letteratura al momento non è univoca al riguardo, con risultati discordanti soprattutto tra studi randomizzati e osservazionali, con i primi che hanno fornito esiti inferiori alle attese ed i secondi, soggetti però a possibili bias di arruolamento, invece molto più positivi. Molto si è dibattuto sulle ragioni dei risultati degli studi randomizzati e sicuramente lo scarso numero di pazienti arruolati, gli alti tassi di cross over tra bracci di trattamento, la breve durata dei follow up, la scadente selezione dei pazienti inclusi, la commistione negli stessi soggetti di trattamento delle CTO e delle lesioni non occlusive, l’inserimento di pazienti a basso rischio e paucisintomatici, la non omogenea ricerca di ischemia e vitalità preliminarmente al trattamento, hanno inficiato la qualità di questi studi, riducendone l’attendibilità. Gli studi osservazionali, tra i quali molti importanti registri, hanno invece fornito, sia pure con qualche voce dissonante, risultati molto più favorevoli al trattamento percutaneo delle CTO. Questi studi hanno spesso dalla loro la forza conferita dall’ampia numerosità dei soggetti osservati e la lunga durata (anche più di 10 anni) dell’analisi, che mostra (2) come i benefici della procedura (riduzione della mortalità sia totale che cardiaca, del rischio d’infarto e di successive rivascolarizzazioni) divengano evidenti solo dopo circa 3 anni dall’intervento, oltre, cioè, i periodi di studio dei trial randomizzati, per poi aumentare progressivamente. Registri e studi osservazionali scontano però l’arbitrarietà della selezione dei pazienti trattati che risultano in genere più giovani e “sani” di quelli gestiti conservativamente. Inoltre il confronto è spesso, come in parte in questo studio, non tra rivascolarizzazione e terapia medica ma tra procedura coronata da successo o da fallimento, trascurando la possibilità che l’insuccesso stesso della procedura possa essere la causa di un outcome clinico negativo o che la mancata ricanalizzazione sia secondaria alla maggiore complessità clinica od anatomica del paziente e che sia questo aspetto e non l’esito della procedura in sé ad influenzare negativamente la prognosi. Ciò nonostante, in attesa di nuovi trials clinici randomizzati di maggiori dimensioni e di migliore metodologia, i risultati dello studio di Kucukseymen rafforzano l’indicazione a prendere quantomeno in considerazione la CTO-PCI nei pazienti con CTO e sintomi.
Bibliografia:
- Kucukseymen S, Iannaccone M, Grantham JA et al. Association of Successful Percutaneous Revascularization of Chronic Total Occlusions With Quality of Life. A Systematic Review and Meta-Analysis. JAMA Network Open. 2023;6(7):e2324522. doi:10.1001/jamanetworkopen.2023.
- Park TK, Lee SH, Choi KH et al. Late survival benefit of percutaneous coronary intervention compared with medical therapy in patients with coronary chronic total occlusion: a 10-year follow-up study. J Am Heart Assoc 2021; 10: e019022