Quando sospendere è sicuro: la sottoanalisi ischemica del trial REBOOT
I beta bloccanti hanno rappresentato, per decenni, un pilastro della terapia farmacologica post-infartuale. Le raccomandazioni delle linee guida suggeriscono il loro impiego sistematico dopo infarto miocardico, indipendentemente dalla funzione ventricolare sinistra. Tuttavia, questa posizione deriva in larga misura da evidenze scientifiche generate in un’epoca precedente alla riperfusione percutanea sistematica, alla rivascolarizzazione completa e alla moderna prevenzione secondaria intensiva.
Un dogma messo alla prova
In questo contesto si inserisce la sottoanalisi del trial REBOOT [1], pubblicata su EuroIntervention, che affronta una delle principali resistenze culturali alla de-prescrizione dei beta-bloccanti nei pazienti con frazione di eiezione preservata: il timore di un “rebound” ischemico dopo sospensione. Due grandi trial randomizzati contemporanei – REDUCE‑AMI [2] e REBOOT [3] – hanno dimostrato l’assenza di un beneficio prognostico dei beta-bloccanti nei pazienti post‑infarto senza disfunzione ventricolare significativa. Tuttavia, una quota non trascurabile di pazienti arruolati assumeva già beta-bloccanti prima dell’evento indice. La sospensione brusca di questi farmaci (storicamente associata a peggioramento anginoso e ad eventi ischemici) rimane uno dei principali ostacoli pratici all’adozione di una strategia selettiva. La sottoanalisi del REBOOT nasce esattamente per rispondere a questa preoccupazione: la sospensione dei beta‑bloccanti alla dimissione si associa a un aumento di eventi ischemici precoci o ricorrenti in un contesto cardiologico contemporaneo?
Disegno e popolazione
Il REBOOT è uno studio randomizzato che ha arruolato oltre 8.400 pazienti con infarto miocardico (STEMI e NSTEMI) trattati mediante rivascolarizzazione percutanea e con FE >40%. In questa sottoanalisi post‑hoc, gli autori hanno distinto i pazienti in base all’uso cronico di beta‑bloccanti prima dell’infarto, valutando: (1) sicurezza ischemica a breve termine (3 mesi) – periodo teoricamente più vulnerabile al rebound – (2) incidenza di eventi ischemici ricorrenti durante un follow‑up mediano di 3,7 anni. L’endpoint composito utilizzato – volutamente inclusivo – comprendeva morte cardiaca, reinfarto, TV/FV sostenuta, arresto cardiaco rianimato o rivascolarizzazione non programmata.
Nessun peggioramento della prognosi né precoce né tardiva
A breve termine, l’incidenza dell’endpoint composito è risultata sovrapponibile tra pazienti randomizzati a beta‑bloccante e controllo. Questo vale sia per l’intera popolazione sia per il sottogruppo dei pazienti già in terapia cronica prima dell’infarto. I risultati sono stati confermati anche nel lungo periodo. Interessante notare che, pur in presenza di un burden ischemico complessivamente maggiore nei pazienti con pre‑trattamento cronico, l’effetto del trattamento randomizzato rimane neutro (HR 0.93, 95% CI: 0.64-1.34).
Uno degli aspetti più rilevanti di questa analisi è la smentita, nei fatti, del temuto rebound ischemico.
I dati storici che hanno alimentato questa preoccupazione derivano da studi condotti in un’epoca caratterizzata da malattia coronarica residua non trattata, alta incidenza di aritmie maligne e grandi aree di necrosi miocardica. Nel trial REBOOT (1)oltre l’80% dei pazienti, precedentemente in terapia con beta‑bloccanti, ha ricevuto una rivascolarizzazione completa; (2) l’incidenza di TV/FV sostenuta o arresto cardiaco è risultata estremamente bassa (<0,3%); (3) i tassi di reinfarto e rivascolarizzazione non programmata sono più bassi rispetto ai trial storici. In questo scenario, il razionale fisiopatologico del rebound perde gran parte della sua forza: la sospensione del beta‑bloccante non avviene più su un substrato altamente aritmogeno e ischemico ma in un contesto di stabilità clinica e farmacologica.
Limiti da tener presente
Come riconosciuto dagli autori, si tratta di una sottoanalisi post‑hoc con endpoint non prespecificato e senza aggiustamento per molteplicità. Inoltre, l’assenza di placebo e il disegno open‑label possono aver influenzato comportamenti clinici e aderenza terapeutica.
Implicazioni pratiche
Questa sottoanalisi ci conferma che non prescrivere o sospendere i beta‑bloccanti dopo un infarto non complicato con FE >40% è una strategia sicura dal punto di vista ischemico, anche nei pazienti già in terapia cronica con i beta bloccanti stessi. Il dato non impone una sospensione indiscriminata, ma legittima una gestione individualizzata.
In attesa di un inevitabile aggiornamento delle linee guida, il trial REBOOT – e questa recente sottoanalisi in particolare – segnano un passaggio culturale importante: in cardiologia moderna, anche la sospensione di una terapia storica può essere un atto corretto e basato sull’evidenza scientifica.
Bibliografia:
[1] Rossello X, et al. Effect of beta blocker withholding or withdrawal after myocardial infarction without reduced ejection fraction on ischaemic events: a post hoc analysis from the REBOOT trial. EuroIntervention. 2025 Dec 1;21(23):e1434-e1444. doi: 10.4244/EIJ-D-25-00826. PMID: 40887991; PMCID: PMC12641547.
[2] Yndigegn T, et al. Beta-Blockers after Myocardial Infarction and Preserved Ejection Fraction. N Engl J Med. 2024 Apr 18;390(15):1372-1381. doi: 10.1056/NEJMoa2401479. Epub 2024 Apr 7. PMID: 38587241.
[3] Ibanez B, et al. Beta-Blockers after Myocardial Infarction without Reduced Ejection Fraction. N Engl J Med. 2025 Nov 13;393(19):1889-1900. doi: 10.1056/NEJMoa2504735. Epub 2025 Aug 30. PMID: 40888702.
