Nei pazienti sottoposti ad ablazione transcatetere di fibrillazione atriale, senza recidiva nell’anno successivo alla procedura e con fattori di rischio per l’ictus, il trattamento con rivaroxaban non determina un’incidenza significativamente inferiore di ictus, embolia sistemica o nuovo ictus embolico silente rispetto al trattamento con aspirina; sono questi i risultati principali dell’OCEAN (The Optimal Anti-Coagulation for Enhanced-Risk Patients Post-Catheter Ablation for Atrial Fibrillation) trial recentemente presentati al congresso AHA di New Orleans e contemporaneamente pubblicati sul New England Journal of Medicine [1].
Si tratta di un trial prospettico, internazionale, multicentrico, randomizzato, open-label ma con valutazione degli endpoint in cieco che ha incluso pazienti sottoposti almeno un anno prima dell’arruolamento ad una ablazione di successo di fibrillazione atriale. La procedura di ablazione veniva considerata riuscita se non vi era alcuna evidenza clinica di aritmia atriale e nessuna aritmia atriale della durata superiore a 30 secondi in almeno un monitoraggio Holter di 24 ore eseguito tra 2 e 6 mesi dopo la procedura di ablazione e in almeno un monitoraggio Holter di 24 ore eseguito in qualsiasi momento dopo 6 mesi dalla procedura. In conformità con il protocollo, i pazienti dovevano, inoltre, sottoporsi ad un monitoraggio Holter aggiuntivo di 48 ore nei 2 mesi precedenti l’arruolamento e dovevano presentare un punteggio CHA₂DS₂-VASc pari o superiore a 1 per gli uomini, oppure pari o superiore a 2 per le donne. Sono stati, invece, considerati criteri di esclusione: una clearance della creatinina inferiore a 30 ml al minuto, una qualsiasi controindicazione alla terapia anticoagulante o antiaggregante, una controindicazione alla risonanza magnetica (MRI), la fibrillazione atriale valvolare (associata a malattia reumatica o a sostituzione valvolare meccanica della valvola mitralica), un ictus invalidante nell’anno precedente o qualsiasi ictus nei 14 giorni precedenti l’arruolamento, un disordine di ipercoagulabilità, una nota anomalia vascolare intracranica, un’età superiore a 85 anni. I pazienti sono stati quindi randomizzati a ricevere aspirina oppure rivaroxaban 15 mg al giorno e sono stati sottoposti a risonanza magnetica (MRI) cerebrale al basale e poi al follow-up di 3 anni per rilevare eventuali ictus embolici silenti.
L’endpoint primario dello studio è stato il composito di ictus, embolia sistemica o nuovo ictus embolico silente definito come almeno un nuovo infarto cerebrale di dimensioni pari o superiori a 15 mm rilevato tra la MRI basale e quella a 3 anni. L’endpoint primario di sicurezza è stato il composito di sanguinamento fatale o maggiore secondo i criteri della International Society on Thrombosis and Haemostasis. Gli endpoint secondari hanno considerato: i singoli componenti dell’endpoint primario di efficacia; il composito di ictus o embolia sistemica; il sanguinamento maggiore, minore e clinicamente rilevante non maggiore; l’emorragia intracranica; l’attacco ischemico transitorio (TIA); i nuovi infarti cerebrali di dimensioni inferiori a 15 mm e la e morte per qualsiasi causa.
Lo studio ha arruolato 1284 pazienti, con un’età media di 66 anni, con il 28.6% di donne e con un CHA2DS2-VASC score di 2,2 (il 31.9% dei pazienti hanno presentato uno score di 3 o più alto. In media la distanza dall’ablazione è stata di 16 mesi). L’arruolamento del trial è stato interrotto prematuramente, nel maggio 2022, per futilità: il tasso di eventi ischemici osservato in entrambi i gruppi è stato talmente basso che sarebbe stato quasi impossibile dimostrare una superiorità del rivaroxaban. L’endpoint composito si è verificato in 5 pazienti (0.8%) del braccio rivaroxaban e in 9 pazienti (1.4%) del braccio aspirina, differenza che non è stata statisticamente significativa (RR 0.56; 95% CI, 0.19 – 1.65; P=0.28). Il tasso di ictus/embolia sistemica clinici è stato bassissimo (0.8% vs 1.1%). Gli ictus silenti, allo stesso modo hanno presentato una incidenza irrisoria: 0 eventi con rivaroxaban, 2 con aspirina. Anche in merito all’endpoint di sicurezza tra i due gruppi non c’è stata differenza significativa nei sanguinamenti maggiori o fatali: 10 eventi (1.6%) con rivaroxaban vs 4 eventi (0.6%) con aspirina (HR 2.51; 95% CI, 0.79 – 7.95). Come atteso, il rivaroxaban si è associato però ad aumento significativo dei sanguinamenti non maggiori: i sanguinamenti clinicamente rilevanti non maggiori (CRNM) sono stati 5.5% vs 1.6%, e i sanguinamenti minori 11.5% vs 3.1%.
Gli autori del trial hanno quindi concluso che in pazienti sottoposti ad ablazione di fibrillazione atriale di successo ed in assenza di recidive di aritmia il trattamento con rivaroxaban non ha determinato un’incidenza significativamente inferiore di eventi ischemici rispetto al trattamento con aspirina, ma al contrario si associa ad un incremento dei sanguinamenti minori.
I risultati di questo studio aggiungono un altro tassello all’intricato puzzle della gestione della terapia anticoagulante orale dopo ablazione di fibrillazione atriale. Le attuali linee guida (sia europee che americane) suggeriscono che la decisione di continuare o sospendere l’anticoagulante non debba basarsi sul successo della procedura, ma esclusivamente sul profilo di rischio del paziente, quantificato dallo score CHA₂DS₂-VASc (punteggio ≥2, o ≥1 per gli uomini). Al contrario questo studio dimostra che in pazienti con FA e fattori di rischio, che sono tuttavia rimasti in ritmo sinusale stabile per ≥1 anno dopo l’ablazione, il rischio di ictus (incluso quello silente) è estremamente basso (0.3-0.6 eventi/100 anni-paziente), quasi simile a quello della popolazione generale e ben al di sotto della soglia per cui si raccomanda la terapia anticoagulante Lo studio ha quindi un importante impatto pratico: perché suggerisce che in questo specifico setting la terapia anticoagulante orale possa essere sospesa con una certa tranquillità dopo il primo anno; tuttavia tali risultati non possono essere estesi ai pazienti con rischio molto più elevato (es. CHA₂DS₂-VASc ≥3) o a coloro che hanno recidive di FA.
Inoltre, sarà importante avere dati di follow-up più lungo (≥5-10 anni) per verificare se la sicurezza mantenuta a 3 anni resti stabile o se emerga un aumento del rischio tromboembolico con l’avanzare del tempo o con la possibile recidiva subclinica della FA; potrebbe essere utile identificare biomarcatori o parametri che possano stratificare ulteriormente i pazienti: ad esempio le dimensione dell’atrio sinistro, la fibrosi atriale, disponibilità di monitoraggio continuo per verificare la presenza di recidive e quindi conseguentemente individuare dei sottogruppi ad alto rischio nei quali l’anticoagulazione piena dopo ablazione resti indispensabile.
Bibliografia di riferimento:
Verma A, Birnie DH, Jiang C, Heidbüchel H, Hindricks G, Kirchhof P, Healey JS, Wang Y, Dagres N, Deyell MW, Sanders P, Pathak RK, Koopman P, Nuyens D, Novak P, Amit G, Dussault C, Makanjee B, Quinn FR, Jolly U, Iden L, Kuniss M, Sharma M, Ha A, Essebag V, Champagne J, Hill MD, Smith EE, Wells GA; OCEAN InvestigatorsAntithrombotic Therapy after Successful Catheter Ablation for Atrial Fibrillation. N Engl J Med. 2025 Nov 8. doi: 10.1056/NEJMoa2509688. Online ahead of print.