La fibrillazione atriale (FA) è la più comune aritmia cardiaca che si riscontra nell’1-2% della popolazione occidentale e risulta essere associata ad un aumento del rischio di morte da 1.5 a 1.9 volte nello studio Framingham. (1,2) FA e scompenso cardiaco (SC) frequentemente coesistono, infatti nella Euro heart Survey lo SC è presente nel 34% dei pazienti con FA e l’FA nel 42% dei pazienti con SC. (3,4) Le motivazioni di questo riscontro sono abbastanza intuitive: la FA con elevata risposta ventricolare può portare ad una tachicardiomiopatia, la perdita del contributo atriale contribuisce a ridurre la gittata sistolica, lo SC determina un aumento delle pressioni di riempimento atriali e dilatazione atriale entrambe riconosciuti trigger per l’FA. (5-8).
Il trattamento della FA nei pazienti con SC presenta delle difficoltà oggettive. La terapia antiaritmica farmacologica ha paradossalmente effetti pro-aritmici, un’efficacia limitata e comunque non ha dimostrato vantaggi sulla sopravvivenza rispetto alla strategia del controllo della frequenza. Un’analisi dello studio AFFIRM suggerisce, infatti, che gli effetti benefici del mantenimento del ritmo sinusale possano essere annullati dagli effetti collaterali dei farmaci antiaritmici. (9) L’ablazione transcatetere si sta rapidamente affermando come una terapia alternativa efficace. L’isolamento delle vene polmonari con o senza l’ablazione atriale estesa hanno dimostrato di mantenere il ritmo sinusale in oltre il 90% dei casi in pazienti con FA parossistica e oltre l’84%% dei casi di FA persistente con complicanze sovrapponibili a quelle della terapia farmacologica. (10) Una metanalisi condotta da Wilton et al. che ha comparato l’efficacia dell’ablazione di FA nei pazienti con e senza SC ha documentato che il tasso di complicanze nei due gruppi è simile e che nel gruppo con SC si ottiene mediamente un miglioramento della frazione di eiezione di circa il 10%. (11) Il recente trial CASTLE-AF condotto su pazienti con SC a funzione sistolica severamente ridotta e FA parossistica o persistente con un follow-up di 38 mesi ha mostrato come l’endpoint primario composito di mortalità per tutte le cause e ricovero per SC si è verificato in un numero inferiore di pazienti nel braccio ablativo rispetto a quello farmacologico (28.5% vs 44.6%, p=0.07) e la mortalità era significativamente ridotta (13.4% vs 28.5%, p=0.01). (12) Segnali positivi provengono anche dall’analisi post-hoc dello studio CABANA che riporta una riduzione del rischio di mortalità a 5 anni in 886 pazienti con storia di SC (molti con funzione sistolica preservata) 441 dei quali randomizzati alla ablazione ed i restanti a terapia farmacologica per il controllo del ritmo o della frequenza cardiaca. (13)
Sulla scorta di questi dati è stato disegnato lo studio prospettico multicentrico randomizzato RAFT-AF i cui risultati sono stati presentati dal dott. Antony Tang (Western University, London, Canada) al congresso dell’American College of Cardiology lo scorso 17 maggio. (14) Il trial è stato condotto su 411 pazienti con un’età media di 66 anni (il 74% dei quali di sesso maschile) affetti da SC in classe NYHA II-III con funzione sistolica ridotta o preservata, un burden di FA parossistica o persistente elevato ed elevati valori di BNP randomizzati ad ablazione transcatetere (n=214) o terapia farmacologica per il controllo della frequenza (n=197) con follow-up a 5 anni. Circa il 70% dei pazienti aveva una cardiopatia ad eziologia non ischemica sottostante, il 33% aveva già un defibrillatore impiantato e circa il 60% dei pazienti avevano una frazione di eiezione ≤ 45%.
Lo studio è stato purtroppo interrotto prematuramente per problematiche di futilità. L’endpoint primario (morte e nuovi episodi di SC) per strategia di controllo del ritmo con ablazione vs controllo farmacologico della frequenza infatti è stato 23.4% vs 32.5% (p=0.06). La mortalità è stata del 13.6% vs 17.3% (p=0.35), gli episodi di SC sono stati 17.8% vs 24.4% (p=0.12) rispettivamente per il braccio ablativo e quello farmacologico. È visibile un trend verso un beneficio della procedura ablativa nei soggetti con funzione sistolica depressa ma che non raggiunge significatività statistica. Più positivi invece i risultati negli endpoint secondari per quanto riguarda il gruppo sottoposto ad ablazione: miglioramento della qualità di vita (stimata con il Minnesota Living with Heart Failure Questionnaire 17.4 vs 14.8, p=0.0036), della distanza al test dei 6 minuti (44.9 vs 27.5 m, p=0.025), percentuale di riduzione del BNP a 2 anni (77.1 vs 39.2, p<0.0001), miglioramento della frazione di eiezione a 24 mesi (10.1 vs 3.8%, p=0.017).
I dati di questo importante trial (purtroppo tecnicamente negativo) indicano che, nonostante un significativo miglioramento della qualità di vita, della distanza percorsa al test dei 6 minuti, un calo del BNP più marcato e un aumento della funzione sistolica nei soggetti con disfunzione ventricolare sinistra, la strategia di controllo del ritmo tramite la procedura ablativa non è in grado di migliorare l’endpoint composito morte e nuovi episodi di SC rispetto alla strategia di controllo della frequenza in pazienti con SC e FA.
Lo studio solleva molti quesiti. I risultati sarebbero stati diversi con la coorte prefissata di 600 pazienti come ha suggerito Christine Albert dello Smidt Heart Institute at Cedars-Sinai di Los Angeles? Possiamo sperare in un risultato positivo riuscendo a ridurre le complicanze procedurali come suggerito da Rachel Lampert (Yale School of Medicine, New Haven)? Endpoint surrogati positivi nello SC hanno ancora ragion d’essere visto il mancato impatto sugli endpoint hard? A queste ed altre domande potremo rispondere probabilmente dopo ulteriori studi.
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