Se un redivivo Mike Buogiorno tornasse oggi con il suo “Lascia o Raddoppia” e chiedesse all’esperto in quale città e anno fu costruito il primo ospedale cardiologico credo che la risposta sarebbe Londra, Vienna, Parigi, Boston o la Mayo Clinic; e così il grande Mike, con l’espressione di chi l’aveva pensata difficile, avrebbe esclamato “peccato!” anziché “risposta esatta!”.
Perché questa, incredibile dictu, era Città del Messico nel 1940.
Ad opera di un suo medico che, come ho ricordato spesso in queste pagine, dopo aver girato il mondo senza che nessuno si accorgesse che in quel piccolo meticcio dall’aspetto dimesso ma dallo sguardo lungo viveva un cervello eccezionale, ritornato poi in patria a curare i suoi cardiopatici, cullerà per 15 anni un sogno, un grande sogno, quello di costruire il famoso Instituto Nacional de Cardiologia. Oltre alle corsie e agli ambulatori specifici, realizzò una vera università cardiologica, con tutte le discipline, dall’embriologia alla fisiologia, dalla farmacologia alla reumatologia e molte altre, perfino la dentistica, tutte orientate nella ricerca e cura dei cardiopatici. Egli inoltre, intuendo già allora le necessità di una migliore visibilità nella didattica e nella ricerca, mandò un’oriunda tedesca in Germania per apprendere l’arte della fotografia e della grafica. E anni dopo il suo fisiologo Arturo Rosenblueth annunciò a noi giovani apprendisti che il futuro sarebbe stato governato dalla cibernetica, come allora si definiva l’arte dei computer, che oggi ci affascina e ci coinvolge.
Il Messico di 80 anni fa non aveva certo tante persone competenti per far funzionare al meglio quell’incredibile complesso di cura e di ricerca, ma Chàvez provvide anche a ciò raccogliendo cervelli da ogni parte del mondo e inviandone altri ad addestrarsi nei migliori centri. Nel contempo molte coincidenze storiche e di finanziamenti generosi gli consentirono la realizzazione di quell’opera, ma credo che nessuno vi avrebbe messo un sì o un dollaro se il piano confezionato nei più piccoli particolari da quel geniale imprenditore della medicina non fosse stato convincente.
Fama volat e quindi progressivamente negli anni successivi al dopoguerra da tutto il mondo vennero a visitare quella meraviglia, che già pubblicava interessanti ricerche. Il riconoscimento ufficiale arrivò alla fine degli anni ’50 con la designazione di Chàvez a Presidente della Società Mondiale di Cardiologia. Ma ai proponenti, che non avevano ancora digerito la separazione dalla medicina interna di una sua componente così importante e “redditizia” quale la cardiologia, Chàvez si presentò all’investitura con un tema per la prolusione che sembrò quasi una sfida: “Grandezza e miseria della specializzazione medica”. Nel quale egli, conscio dell’ineluttabilità delle molte frammentazioni mediche in continuo aumento, si rifece al grande crogiuolo dell’umanesimo e del rinascimento, dai quali sono derivati i grandi anatomici, gli Harvey, i Morgagni e tanti altri, affinché ogni medico, spiegava il relatore, avesse sempre presente la storia e le conquiste della scienza, le uniche capaci di tenerci uniti e di tenere unita la scienza medica.
In realtà oggi la cardiologia è esattamente quella sognata e realizzata da Chàvez, ovunque è una disciplina a sé stante, e con sempre nuove tecniche e presidi che la rendono non più proponibile come branca indissolubile dell’internistica. Anzi da essa si sono in continuazione sviluppate tante altre superspecialità (unità coronarica, emodinamica, elettrofisiologia) che tendono a loro volta a farsi sezioni separate, specie nei grandi ospedali che raccolgono grande richiesta di prestazioni particolari.
Molto tempo è passato, anzi millenni, dalla concezione della medicina di Ippocrate e Galeno come corpo unico, ma non tanti anni dalle prime separazioni: la chirurgia, la dentistica e poche altre. Le specializzazioni quindi hanno rotto l’incantesimo del considerare e valutare il malato come un insieme di tanti organi collegati tra loro, spesso anche quando uno di essi devia dalla normalità. Una separazione che è costata e costa ancora fatica al medico e al paziente, difficilmente compensata dallo scambio di opinioni fra i vari esperti. Manca soprattutto quell’interlocutore unico, quale era il condotto dei nostri nonni, con cui dialogare e stabilire un rapporto di fiducia. Tutto oggi sembra un intreccio di macchine, di referti, CUP, privacy e dichiarazioni di consenso. Il tutto giustifica le esasperazioni, come l’osservazione di George Bernard Shaw, secondo il quale “lo specialista è colui che, a furia di assottigliare sempre più il suo campo di indagine, finisce per sapere tutto su niente”; e ancora, forse esasperato dalla nuova medicina, diceva “chiunque è troppo specialista è, a rigore di termini, un idiota”.
Dobbiamo invece reagire a queste difficoltà combattendo contro i molti che sospinti da quei “nobili” intenti non si accorgono che la burocrazia e i mille commi delle legislazioni intralciano il lavoro dei sanitari e sottraggono denaro al lavoro utile. Ma anche reagire, come dice un saggio ecclesiastico, con il “desiderio di spaziare” nelle molte conoscenze in ogni campo, direi anche in quello della poesia, “a seguir virtude e canoscenza”, così come aveva intuito il dottor Chavez un secolo fa.
Eligio Piccolo
Cardiologo