Lipoproteina(a) ed eventi cardiovascolari ricorrenti
di Laura Gatto
03 Giugno 2025

È ormai ampiamente dimostrato come livelli elevati di lipoproteina(a) rappresentino un fattore di rischio per un primo evento cardiovascolare in individui altrimenti sani, indipendentemente dal sesso e dall’etnia/razza [1-2]. Non è noto se questa associazione sia valida anche per gli eventi ricorrenti. Su uno degli ultimi numeri della rivista European Heart Journal è stato pubblicato un lavoro di MacDougall e coll. condotto con l’ipotesi di testare proprio questa ipotesi [3]. Per lo studio è stato impiegato il database americano della Family Heart Foundation includendo i soggetti con età ≥ 18 anni, con anamnesi di un evento cardiovascolare (infarto miocardico, altra sindrome coronarica acuta, angioplastica coronarica, bypass, angina stabile, ictus ischemico, altra malattia cerebrovascolare, attacco ischemico transitorio, malattia vascolare periferica) e con almeno un dosaggio della lipoproteina(a) in nmol/L. Gli eventi ricorrenti durante il follow-up hanno incluso le ospedalizzazioni per: infarto miocardico, altre sindromi coronariche acute, ictus ischemico, procedure di rivascolarizzazione miocardica sia percutanea che chirurgica. In assenza di terapie specifiche per la lipoproteina(a) è stato valutato l’uso di diverse terapie ipolipemizzanti considerate ad impatto elevato [statine ad alta intensità, in associazione o meno ad ezetimibe o acido bempedoico ed inibitori della proproteina convertasi subtilisina/kexina di tipo 9 (PCSK9i) da soli o in associazione] oppure considerate ad impatto basso/moderato [ezetimibe e acido bempedoico in monoterapia, statine a bassa intensità]

L’analisi finale ha incluso 273.770 individui con malattia cardiovascolare accertata, suddivisi in cinque categorie in base ai valori di lipoproteina(a): <15, da 15 a 79, da 80  a 179; da 180 a 299 e  ≥300 nmol/L. Passando dalla categoria di lipoproteina(a) più bassa a quella più alta, si è osservata una percentuale progressivamente maggiore di donne (dal 38% al 54%) e di individui neri (dal 5% al 15%), con una corrispondente percentuale progressivamente inferiore di uomini (dal 62% al 46%), ispanici (dal 10% al 7%) e bianchi (dal 63% al 55%). Come previsto, i livelli di colesterolo LDL e l’uso di terapie ipolipemizzanti sono risultati più elevate nei pazienti con livelli di lipoproteina(a) più elevati, anche se l’uso di PCSK9i è stato in generale molto basso (1%). Durante un follow-up mediano di 5.4 anni, 41.687 soggetti hanno presentato una ricorrenza di eventi cardiovascolari e livelli più elevati di lipoproteina(a) sono stati associati ad un rischio continuamente crescente di un nuovo evento sia nell’analisi generale, che in quelle aggiustate per sesso, etnia/razza ed età. Rispetto agli individui con livelli di lipoproteina(a) < 15 nmol/L, l’hazard ratio per eventi ASCVD ricorrenti è stato di 1.04 (IC 95% 1.01–1.07) per il gruppo 15–79 nmol/L, di 1.15 (1.12–1.19) per il gruppo 80–179 nmol/L, di 1.29 (1.25–1.33) per il gruppo 180–299 nmol/L e di 1.45 (1.39–1.51) per gli individui con lipoproteina(a) ≥ 300 nmol/L. Non sono state riscontrate differenze significative in merito al tipo di evento cardiovascolare ricorrente. Livelli più elevati di lipoproteina(a) sono stati associati ad un rischio continuamente crescente di un evento ricorrente in ciascuno dei sottogruppi analizzati, indipendentemente dalla presenza di diabete e dal tipo di malattia cardiovascolare al basale (coronarica, cerebrovascolare, periferica).

Dal momento che non sono state ancora approvate armi farmacologiche per abbassare la lipoproteina(a), l’attuale strategia clinica per trattare gli individui con lipoproteina(a) alta è quella di “ottimizzare” il trattamento degli altri fattori di rischio cardiovascolare, iniziando da un’aggressiva riduzione del colesterolo LDL. Nel tentativo di capire se tale strategia potesse risultare vincente, nello studio è stata condotta un’analisi di sottogruppo in base all’uso di terapia ipolipemizzante (i) ad alto impatto, (ii) a basso/moderato impatto e (iii) nessuna terapia. Gli autori hanno inizialmente dimostrato come l’uso di terapia ipolipemizzante ad alto impatto rispetto al non uso o all’uso di terapia a basso/moderato impatto sia associato ad un rischio inferiore nel gruppo con lipoproteina(a) ≥ 180 nmol/L. Tuttavia considerando i soggetti con livelli di lipoproteina(a) inferiori ad 80 nmol/L e quelli con livelli > 180 nmol/, il tasso di eventi ricorrenti per 1000 persone/anno è passato da 23.2 a 31.2 a in coloro che non utilizzavano alcuna terapia, da 26.7 a 34.1 in coloro che utilizzavano una terapia ad impatto basso/moderato impatto e da 41.6 a 46.2 in coloro che utilizzavano una terapia ad alto impatto.

Gli autori hanno quindi concluso che in questo registro molto numeroso che ha coinvolto oltre 273.000 soggetti con patologia cardiovascolare nota e con dosaggio della lipoproteina(a), livelli più elevati di tale lipoproteina sono stati associati a un rischio continuamente crescente di un nuovo evento cardiovascolare indipendentemente da sesso, etnia/razza, ASCVD basale e diabete, questo a conferma del fatto che i livelli di lipoproteina(a) sono geneticamente determinati per oltre il 90% e non sono associati alla presenza di altre comorbidità come ad esempio il diabete.

La lipoproteina(a) si conferma nuovamente come un importante marcatore di rischio, che dovrebbe essere dosata almeno una volta nella vita di ciascun soggetto per quantificarne meglio il rischio cardiovascolare assoluto ed anche quello residuo alla luce dei risultati di questo studio. Il dato nuovo che emerge e che necessità di un ulteriore chiarimento è l’associazione tra il rischio di eventi ed il tipo di terapia ipolipemizzante assunta, in quanto dai risultati del gruppo di MacDougall sembrerebbe che il rischio assoluto di avere un evento cardiovascolare ricorrente sia più basso negli individui che non utilizzano alcuna terapia per la riduzione del colesterolo LDL e più alto negli individui che utilizzano una terapia ipolipemizzante considerata ad alto impatto. Questo risultato apparentemente contraddittorio potrebbe essere dovuto ad un bias di indicazione all’impiego delle terapie ipolipemizzanti, vale a dire che le terapie più aggressive vengano riservate ai pazienti considerati a maggior rischio cardiovascolare residuo e/o con livelli basali più elevati di colesterolo LDL. Diverse terapie sperimentali in grado di ridurre i livelli di lipoproteina(a) dell’80%–98% sono in fase di sperimentazione in individui con patologia cardiovascolare nota e livelli di lipoproteina(a) superiori a 175–200 nmol/L [ClinicalTrials.gov: NCT04023552, NCT05581303 e NCT06292013]. Tuttavia, fino a quando tali terapie non saranno disponibili e non ne sia stata dimostrata l’efficacia in termini di riduzione di eventi cardiovascolari, rimane incontrovertibile e fortissima la raccomandazione di utilizzare le diverse terapie ipolipemizzanti per raggiungere i target suggeriti dalle linee guida in base alle classi di rischio.

Bibliografia di riferimento:

  1. Nordestgaard BG, Langsted A. Lipoprotein(a) and cardiovascular disease. Lancet 2024; 404:1255–64. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(24)01308-4
  2. .Koschinsky ML, Bajaj A, Boffa MB, Dixon DL, Ferdinand KC, Gidding SS, et al. A focused update to the 2019 NLA scientific statement on use of lipoprotein(a) in clinical practice. J Clin Lipidol 2024;18:e308–19. https://doi.org/10.1016/j.jacl.2024.03.001
  3. MacDougall DE, Tybjærg-Hansen A, Knowles JW, Stern TP, Hartsuff BK, McGowan MP, Baum SJ, Wilemon KA, Nordestgaard BG.Lipoprotein(a) and recurrent atherosclerotic cardiovascular events: the US Family Heart Database. Eur Heart J. 2025 May 7:ehaf297. doi: 10.1093/eurheartj/ehaf297.