Quando la Cardiologia era già una specialità di tutto diritto, intorno agli anni sessanta, se ai suoi specialisti avessero chiesto quale delle due era meglio conosciuta, se un buon piatto di orecchiette alle cime di rapa o la funzione di quelle del cuore, avrebbero di certo risposto le prime. Non avrebbero compiuto un sacrilego baratto come quello di Esaù con le famose lenticchie, perché in effetti le orecchiette anatomiche, dette anche auricole, quelle che stanno appollaiate a lato degli atri come le orecchie di un vecchio cane a riposo, non si sapeva a cosa servissero.
I testi medici non l’avevano specificato perché gli stessi autori non ne conoscevano la funzione. Quelle curiose strutture erano quasi considerate un residuo ancestrale dell’evoluzione darwiniana, come la coda del cane che si muove senza che se ne sappia la funzione fisiologica. Nel Veneto però si usa dire: “gnanca el can mena la coa par gnente” (nemmeno il cane muove la coda per niente); ed è per l’appunto con questa saggezza di un popolo che parlava poco, ma pensava molto, che molti ricercatori negli ultimi sessant’anni sono andati più a fondo e hanno finalmente scoperto la funzione, o meglio la disfunzione delle orecchiette del cuore quando vengono “provocate”.
Ce l’hanno riassunta oggi molto bene su Circulation 2018 alcuni studiosi italiani, che provengono, guarda caso, proprio dalle regioni dove si gusta da secoli quel famoso primo piatto. A dare l’avvio a tutta una serie di nuove scoperte, ricordano quei ricercatori, è stata come spesso succede in medicina una malattia, anzi un’aritmia, anch’essa poco studiata fino a quando non è divenuta una vera e propria endemia, la fibrillazione atriale. Che, lo dobbiamo ricordare, è una specie di paralisi degli atri durante tutto il tempo in cui essa si mantiene, una immobilità temporanea ma nociva, non solo per i disturbi soggettivi fastidiosi, quanto soprattutto perché rallenta lo scorrimento del sangue nel loro interno facilitandone la coagulazione. Ossia la formazione di trombi che, se si staccano e raggiungono la camera di espulsione, il ventricolo, prendono spesso la via del cervello, causando l’ictus o piccoli infarti dell’organo, più o meno silenziosi. Un rallentamento, tuttavia, che nei soggetti giovani, quando ancora l’orecchietta non si dilata assieme all’atrio, raramente la fibrillazione provoca quella complicazione tromboembolica. Mentre con l’età e le ripetizioni aritmiche tutto cambia, l’orecchietta sinistra diviene a sua volta un ricettacolo di maggiore rallentamento del sangue e quindi urge correre ai ripari.
Il primo è stato quello di rendere il sangue meno coagulabile con un farmaco di origine vegetale, la warfarina, meglio conosciuto come coumadin, che non è stato da tutti ben accetto a causa della necessità di un periodico esame del sangue per controllarne la giusta dose: se scoagula poco il rischio permane, se lo fa troppo si teme quello di emorragie. Fortunatamente ora abbiamo i nuovi anticoagulanti, che operano senza la necessità di controlli e sono ugualmente efficaci nel prevenire i guai. Si è pensato anche a come neutralizzare quell’orecchietta colpevole. I primi a farlo sono stati i cardiochirurghi che nei casi in cui c’era bisogno del loro intervento la escludevano legandola. Poi per poterlo fare in più casi il cardiologo ha ideato una specie di tappo artificiale da inserire mediante catetere nella sua cavità occupandola. Lo stratagemma riuscì, ma non senza qualche inconveniente, soprattutto la complessità della procedura e l’opportunità di mantenere la terapia anticoagulante. Si è pensato allora di isolarla elettricamente mediante l’ablazione perché si è visto che anche dal suo imbocco, come da quello delle vene polmonari nascono spesso le extrasistoli che innescano la fibrillazione. I risultati sono stati interessanti, ma non tali da migliorare di molto quelli dell’intervento ablativo, già di per sé tanto complesso. Si sta ora pensando che la soluzione migliore sia isolare l’orecchietta, così come fanno i chirurgi, ma senza l’intervento a torace aperto. Gli specialisti sono quindi alla ricerca di una tecnica percutanea, simile a quella per estirpare una cistifellea calcolosa senza aprire la pancia. Mediante la quale raggiungere l’orecchietta e strozzarla con un laccio. Lo si è realizzato in qualche paziente, ma il raggiungimento del cuore per via “indiretta” non è così facile come esplorare l’intestino o la vescica, per cui la tecnica è ancora in via di perfezionamento.
Alla fine di questo travagliato iter abbiamo scoperto che le orecchiette del cuore sono anche produttrici di sostanze che regolano la nostra pressione e l’inizio di uno scompenso, ma che purtroppo, tutto sommato, dobbiamo ancora concludere che nelle “avversità” si comportano più come sede di complicazioni che come aiuto. E che sono certo preferibili quelle che le brave massaie del sud-Italia confezionano a mano e ce le servono con le profumate cime di rapa, anche se si è in fibrillazione.
Eligio Piccolo
Cardiologo