E’ opinione comune che la carne rossa, quella dei bovini, maiali, agnelli, pernici, la più gustosa, sia meno salutare della bianca, dal pollo al coniglio. Qualcuno include in questa anche il vitello giovane, quello che le mamme attente dei miei tempi riservavano al ragazzo in crescita. Tutte opinioni che, non hanno mai avuto un aggancio scientifico convincente, come ad esempio il colesterolo con l’arteriosclerosi, ossia una causa specifica con un effetto provato. Siamo stati per secoli ancorati a nozioni più letterarie che scientifiche, quelle che ci avevano fatto conoscere la podagra dei nobilotti dediti alle cacce e alle agapi succulente, immortalate da Rabelais nel satirico Gargantua e Pantagruel. Almeno fino agli studi più recenti nei quali alcuni ricercatori ci hanno fatto sapere che non uno ma più fattori interverrebbero nel danneggiare il corpo dopo anni di abuso delle carni rosse.
I fattori inquisiti infatti sarebbero, secondo gli esegeti, alcune caratteristiche non ben definite delle proteine che compongono le rosse, la presenza di grassi insaturi, quelli che hanno fatto la fortuna dell’olio extravergine di oliva, il sale di sodio in maggiore quantità, alcuni composti ossidanti che favorirebbero il diabete e l’arteriosclerosi, ed altri che si formerebbero nella cottura e favorirebbero il cancro. Insomma un complesso di elementi che assieme ai tanti condizionali fanno pensare più alla filosofia che alla scienza, come quelli che, in altri campi, portano alle competizioni politiche, alle crisi finanziarie o a certe reazioni psicologiche di chi alza la voce o impugna un’arma. Difficili da combattere con un antidoto semplice, come la statina contro il colesterolo.
Discorrendo amabilmente di questi problemi, in realtà con fini più esistenzialistici che scientifici, durante una cena di cacciagione innaffiata da un ottimo Cabernet, un amico non medico tentò una considerazione di biologia comparata osservando che le belve, come i leoni e le tigri, avide di carni rosse, sono anche penalizzate da una durata di vita che è un terzo di quella nostra; ma fu subito rimbeccato dal dottore veterinario che gli fece presente come la volpe, quella stragista della carne bianca dei nostri pollai, vive molto meno del leone e dei canidi. Da qui, per dire, la necessità che qualcuno con maggiore autorità rimettesse la questione su basi scientificamente un pochino più solide.
Ed è per l’appunto ciò che hanno tentato di realizzare alcuni gruppi di ricerca degli USA e della Cina (BMJ. Giugno 2019), capeggiati da Yan Zheng, i quali, seguendo durante otto anni cosa succedeva con le differenti diete e le patologie in oltre 80.000 soggetti normali, hanno effettivamente osservato che gli appassionati delle carni rosse, specie se trattate industrialmente (salsicce, wurstel, ecc), al confronto con i vegetariani o i carnivori moderati, morivano prima ed erano più recettivi alle malattie cardiovascolari, respiratorie, all’insufficienza cardiaca, diabete, ipertensione e al cancro. Senza eccessivo allarme però, poiché l’indice statistico risultò piuttosto basso (p<0.05), tale secondo me da consentire un modus in rebus, ossia sperare nel famoso semel in anno che in questo caso ha molte possibilità di essere ebdomadario, settimanale. Oggi d’altronde abbiamo anche la possibilità di tenere in qualche modo sotto controllo gli eccessi mediante il dosaggio dell’acido urico e del colesterolo, premonitori della gotta e dei coccoloni, fiorenti negli eccessi del Rinascimento e delle società opulente.
Lo studio cinese-statunitense, che apparentemente sembra aver scoperto l’acqua calda, in realtà ci consente di fare due considerazioni interessanti: la prima è che la carne rossa non è di per sé un veleno, come non lo è il colesterolo d’altronde, ma un cibo di cui non abusare e da concedersi come eccezione nell’ambito di una dieta abituale possibilmente mediterranea; la seconda osservazione è che la ricerca bicontinentale sopra riferita non consente di fare estrapolazioni sull’uso della carne rossa durante un periodo più lungo degli otto anni, troppo pochi per la nostra specie che mira oramai ai cento. E che per l’appunto durante un’anamnesi di maggiore durata ci starebbe tutto il tempo per logorare le arterie, il fegato, i reni, il pancreas, ma soprattutto per superare la cosiddetta barriera encefalica e danneggiare le nostre cellule più nobili. Con la conseguenza, dicono quei ricercatori, di favorire anche le malattie neurodegenerative, che nella donna si manifestano più spesso con la demenza e nel maschio con il Parkinson.
Se le carni rosse fossero realmente responsabili di una maggiore involuzione senile delle nostre facoltà mentali, sarebbe il caso di imporre per legge la dieta mediterranea o vegetariana, almeno per chi vuole intraprendere carriere di responsabilità pubblica. Le quali forse ci preserverebbero anche dal famoso detto: “meglio un giorno da leone che cento…”.
Eligio Piccolo
Cardiologo