Negli antichi trattati non c’è notizia di medicamenti cardioattivi perché nulla si sapeva delle funzioni del cuore né delle sue malattie. I medici egizi parlavano di “cuore stanco e lontano”, quelli del Medioevo e del Rinascimento di “morte di crepacuore” riferendosi però a dolori dell’anima. Usavano l’oleandro, la belladonna, il salice, l’aglio e soprattutto la scilla che faceva regredire gli edemi. Nei monasteri cristiani, centri del sapere medico, nacquero gli “herbolari” dove i monaci-speziali curavano gli orti botanici, catalogavano le sementi, le scambiavano con i colleghi di altri paesi, ricercavano i modi migliori per preparare le medicine. La preparazione dei medicamenti, complicata e meticolosa, seguiva rituali che nel caso delle medicine più prestigiose, assumevano carattere di solenne cerimonia. Durante la preparazione venivano recitate orazioni e formule magiche che dovevano essere ripetute al momento della somministrazione all’ammalato. La loro composizione era sempre segreta. Superfluo dire che la farmacoterapia era grossolanamente empirica e che la ciarlataneria e le mistificazioni prevalevano sulla scienza. La scoperta dell’America e le grandi esplorazioni portarono in Europa moltissime piante esotiche le cui proprietà medicamentose erano vantate dai mercanti e dai sovrani. Luigi XIV fu il maggior promotore, I progressi nel campo della biologia non influenzarono le terapie. Nei medici più illuminati cresceva la sfiducia nei medicamenti in voga spingendo molti verso il nichilismo terapeutico. Joseph Skoda, il primo a chiedere la collaborazione dei docenti di acustica per definire i toni e i rumori cardiaci (nonché il primo a tenere le lezioni di clinica in tedesco anziché in latino), verso la metà del secolo scorso (?) disse che la medicina era una palude tetra dalla quale emergevano due sole isole illuminate: la semeiotica fisica e l’anatomia patologica. Giudicava le terapie correnti inutili e indegne di un uomo di scienza. La grande eccezione è la digitale.
La “tetra palude”