A differenza di quella calda, che si cita per la sua banalità, l’acqua fredda invece ha una sua dignità medica di tutto rispetto da quando un certo Maurice Raynaud, professore dei famosi Hopiteaux di Parigi nel XIX° secolo, scoprì che lavare i piatti o i panni nell’acqua fredda, ma anche la semplice esposizione al clima rigido, poteva causare un fastidioso disturbo alle mani, più raramente ai piedi, che diventavano pallide e dolenti, talora cianotiche. Era più frequente nelle donne (circa l’80%), non rispondeva ad alcuna terapia tranne a quella di proteggersi dalle basse temperature, e solo in un 10% dei casi quel disturbo poteva essere sintomo di una malattia seria. Il tutto è ancora oggi catalogato come fenomeno o malattia di Raynaud, il quale, si racconta, non inventò nient’altro, ebbe una carriera difficile nella ricerca di una cattedra, e, quando finalmente la raggiunse, morì a soli 47 anni e prima di potercisi sedere sopra.
Oggi potremmo anche dire che l’acuta osservazione di quel medico francese ha consentito di porre l’attenzione, più che sul disturbo in sé, sul suo meccanismo, quello che gli addetti ai lavori definiscono fisiopatologia, e che nel fenomeno di Raynaud è la capacità delle arterie, piccole e grandi, di restringersi o dilatarsi sotto l’azione di molti fattori, tra cui la temperatura. Sono vasi che possono reagire anche all’emozione, come nel rossore del volto in giovani timidi o nell’aumento della pressione arteriosa in molti soggetti a causa di tanti fattori. Nel primo caso le arteriole si dilatano facilitando il rosso del sangue sulla pelle del viso, nel secondo si restringono e, aumentando le resistenze al flusso, elevano anche la pressione. Ed è per l’appunto su queste resistenze che agiscono per abbassarle sia i consigli medici di dieta e attività fisica, sia i farmaci, detti appunto antiipertensivi.
Vi fu un periodo del secolo scorso in cui si pensò di sfruttare l’azione del freddo per studiare meglio come reagiva la nostra pressione. Consisteva nell’immergere le mani per alcuni minuti in una bacinella di acqua e ghiaccio e valutare la maggiore o minore reazione pressoria. Una tecnica piuttosto “casalinga” se vogliamo, ma per darle maggiore dignità medica da noi si pensò di adottare la terminologia anglosassone di “cold pressor test”.
A onor del vero non fu proprio la fatalità, come dicono a Venezia, quella che accese la lampadina nella mente di Raynaud. La cultura scientifica latina integrata dal razionalismo, a differenza di quella nordica più attenta a non liberare troppo la nostra fantasia, ha consentito, nella Francia di allora, intuizioni che spesso poi la ricerca ha confermato.
Che i vasi sanguigni non fossero tubi rigidi, come molti pensavano, ma semoventi, come tutto nel nostro corpo, lo hanno sottolineato in anni più recenti anche i pisani sulle coronarie, dando il via a tutta una serie di nuove considerazioni sia sul processo di formazione delle malattie coronariche, sia sul modo di correggerle.
Lo spasmo come causa di angina o di rottura di placca e il conseguente infarto sono le conquiste che da allora fanno da guida nella pratica cardiologica.
Ed è interessante come recentemente proprio i nordici, dall’Olanda (Università di Nijmegen) e dall’Inghilterra (Università di Liverpool), abbiano ripreso in mano quel test dell’immergere le mani in acqua fredda per predire le malattie cardiovascolari. Partendo dal presupposto che le arterie che tendono a strizzarsi con maggiore facilità, sarebbero anche più cagionevoli nell’ammalare, Anke van Mil e il suo gruppo hanno provocato con il cold pressor test le carotidi di 172 pazienti, prevalentemente maschi (67%) e anziani (68 anni di media), già toccati dall’arteriosclerosi per un’arteriopatia delle gambe. Il Doppler delle loro carotidi, quello che oramai fa parte della routine diagnostica, dopo immersione per 90 secondi in acqua a 4° C, mostrò un restringimento in 82 casi e una dilatazione negli altri novanta. Seguiti per un anno e rivalutati, si constatò che gli 82 le cui carotidi si restringevano al freddo, rispetto ai 90 che invece si dilatavano, rischiavano quattro volte di più di avere infarto o ictus e due volte di più di patire un generico andamento clinico peggiorativo.
Non sappiamo se questo nuovo test carotideo, facile peraltro da eseguire perché basta combinare il Doppler con una bacinella di acqua e ghiaccio, avrà maggiore fortuna di quello usato per la pressione arteriosa, oramai abbandonato per scarso rendimento. Gli esegeti che oggi si appassionano alle “disfunzioni endoteliali” delle arterie, alle loro evoluzioni durante l’arteriosclerosi e alle conseguenti malattie del cuore e degli altri organi vitali sono per ora entusiasti e ci proporranno certamente nuovi test “cold”, non solo a chi ha le arterie delle gambe già compromesse, come in quella ricerca, ma forse anche agli anginosi e di nuovo agli ipertesi per rivalutarne i rischi. Comunque questo revival è un giusto riconoscimento allo sfortunato Raynaud.
Eligio Piccolo
Cardiologo