Difficile tradurre quel termine inglese nel nostro idioma latino fatto di capi, primari, cattedratici, luminari, maestri, professori e baroni (non solo universitari), in un’attività quella medica, caratterizzata da conoscenza, capacità, umanità, dedizione e, lasciatemelo dire, missione. Che un tempo era “facile” perché si fondava su poche cose: una buona preparazione teorica, spirito di osservazione ed esperienza. Ma dopo, con il progresso, sono arrivate le specialità, oggi anche le super specialità, le tecnologie più complesse, dalle risonanze magnetiche ai segreti della genetica; le terapie contro ogni ostacolo, dagli antibiotici per tutti i germi ai chemioterapici antitumorali; la chirurgia, dal bypass ai trapianti.
Manca solo il cervello.
Tutto ciò ha moltiplicato, oltre alla spesa, anche il numero dei reparti, delle persone addette, i responsabili, le leadership. I Frugoni che avevano curato i Mussolini, i Valdoni che avevano operato il cervello di Togliatti, i White al capezzale di Eisenhower infartuato, gli Osler sempre citati negli editoriali nordamericani, non sono più la vox populi. Sì, ogni tanto appare quello che ha soccorso e operato Berlusconi o chi si propone come antesignano di qualche intervento chirurgico ardito o superesperto della pressione alta, ma sono soltanto pallide imitazioni.
Anni dopo l’autarchia culturale, nel dopoguerra, c’era chi andava all’estero per aggiornarsi negli ospedali o Università più note, dai personaggi che la letteratura aveva promosso, e ci andava con umiltà, convinto di dover solo ascoltare quei docenti. Così come era stato abituato da noi dove lo “jurare in verba magistri” era quasi un comandamento e nessuno poteva liberamente interloquire con il Capo o, peggio, chiedergli il parere su un malato o altro, o mettere alla prova la sua preparazione.
Egli quindi, l’emigrato culturale, rimaneva disorientato allorché si rese conto che in quelle realtà estere anche l’ultimo arrivato si poteva permettere di dire a quei maestri “dottore, mi scusi, ma io non sono d’accordo con lei”, mentre l’interlocutore era assolutamente contento di dialogare con lui e chiarire; e più ancora quell’apprendista sperimentava con gioia la possibilità di interpellare gli insegnanti ogni volta che ne sentiva la necessità. La porta del loro studio era sempre aperta, la meritocrazia in quei posti determinava anche la leadership.
Oggi la vera leadership, perfino in quei templi della scienza medica avanzata, si è frammentata, diluita, è divenuta in un certo senso poco controllabile, sia dal pubblico che sta perdendo i punti di riferimenti, i suoi idoli, che dallo stesso mondo accademico e sanitario, dove è più difficile attribuire la meritocrazia e le rispettive leadership. La moltiplicazione delle competenze e il difficile coordinamento fra di loro, con gli studenti e con gli stessi pazienti, sta rimettendo in discussione il tutto. Oggi il pubblico, il malato, sente dire che l’ecocardiografista migliore è tizio, l’emodinamista più capace è caio, l’aritmologo più esperto sempronio, ma chi tira le fila del tutto, chi pensa soprattutto al paziente e non ai singoli problemi medici che lo coinvolgono, chi sa divenire clinico e maestro, in breve chi è il Maestro, comincia a scarseggiare, anche dove prima c’erano maggiori punti di riferimento.
Di ciò si stanno preoccupando nel loro New England Journal of Medicine di maggio 2018 i nordamericani perché, mentre il paese continua ad essere il promotore di quello sviluppo e anche della diaspora delle competenze, dei centri, dei laboratori e di coloro ai quali devono assegnare per merito la responsabilità, sono ora in difficoltà nel decidere quelle leadership. Essi stanno analizzando le cause di questa incontrollata rivoluzione, i maggiori costi che ne conseguono e prospettano in quella rivista i cambiamenti opportuni per riportare il tutto a nuovi criteri di preparazione e di selezione dei docenti e dei responsabili, insomma le leadership migliori.
Anche da noi sta arrivando, anzi lo sentiamo molto, quel vento incontrollabile, generato pure qui dalle tante moltiplicazioni di competenze e di reparti, ma a tutto ciò noi abbiamo aggiunto, o meglio amplificato un altro fattore più incontrollabile, la burocrazia. Fatto di impiegati inutili, imposti dalle agevolazioni politiche, ma impegnati a dimostrare la loro necessità di esistere, attraverso riunioni nelle quali l’analisi perditempo prevale sulla sintesi fattiva, circolari e pandette per coprire ogni responsabilità. E pensare che abbiamo, a detta di molti, la migliore sanità del mondo. Certo, se guardiamo il nostro paese dalla jonosfera sembra un tutt’uno omogeneo, accettabile, ma quando scendiamo a terra si deve constatare che l’organizzazione in generale si sta ingolfando; il centro-nord primeggia in università, ospedali ed efficienza, il sud è sempre a macchia di leopardo. Si è denunciato fino alla noia che una siringa a Milano vale uno, ma a Catania costa dieci, e che molti pazienti curabili in ottimi reparti del sud preferiscono emigrare al nord.
Insomma, da noi la leadership in medicina, non solo si sta frammentando in quei mille rivoli promossi dallo sviluppo dell’organizzazione sanitaria, delle università e degli ospedali, delle tecniche, delle diagnosi e terapie sempre più complesse, difficili da inquadrare e controllare, ma essa sta per passare dalla mano dei medici e dei sanitari in genere a quella dei burocrati e delle “mafie” di potere. Un mio amico, già cattedratico di cardiologia, di quelli che hanno goduto e sofferto l’attuale sviluppo della Sanità nazionale degli ultimi 50 anni, dice che la frammentazione in atto “costringe” gli amministratori a mettere tutti, generici, specialisti e superspecialisti sotto il comando di un direttore di dipartimento, per lo più non specialista della loro disciplina. Cosicché, ad esempio, i primari cardiologi saranno indirettamente esautorati, ritornano nella posizione di “aiuti”, non solo alle dipendenze magari di un bravo internista, ma anche del politico. Si starebbe realizzando per coloro che hanno sognato una meritata leadership clinica e di competenza una doppia beffa, il ritorno al passato, ma soprattutto alla sudditanza di chi vive solo del divide et impera.
Sarebbe un primato tutto nostro, cui si dovrebbe con urgenza porre attenzione e rimedio, prima che la fatidica nostra prerogativa di “arrangiarsi” diventi un nuovo modus vivendi, che sarebbe la leadership della BUROCRAZIA.
Eligio Piccolo
Cardiologo