LA GOBBA E LA PANCIA. GENETICA E STILE DI VITA
di Eligio Piccolo
09 Settembre 2019

Mio nonno Domenico, agricoltore, di poca scolarità e nessuna cultura scientifica, si era costruito da solo un’invidiabile saggezza contadina, sedimentata lungo generazioni silenziose tra il basso Friuli e il Veneto orientale. Sempre attento però a non derogare dai principi etici basilari, che egli sapeva secolarizzare con un salutare umorismo. Assieme a nonna Maria era vissuto fin quasi gli ottanta e ai figli e nipoti raccomandava spesso che nello scegliere il coniuge guardassero soprattutto il pedigree, ossia che non ci fossero tare familiari. Aveva anche intuito certi capricci della genetica quando, atteggiandosi in un sorriso ammiccante, precisava che “el fiol (figlio) del gobo no xe gobo, ma el fiol del fiol del gobo torna gobo”. La nonna invece, piuttosto golosa e pingue, soleva ripetere, dopo essersi gustato l’ennesimo cotechino, che a causa della carne di maiale avrebbe sicuramente anticipato di dieci anni la propria fine.

Questi e pochi altri furono i principi genetici e sullo stile di vita che ereditai da loro e dai genitori; ma quando divenni medico dovetti constatare che poco di più avevano imparato coloro che si erano formati alle scuole alte. Anzi, visti con il senno del poi, questi “privilegiati” avevano spesso ignorato l’anamnesi familiare cercando nel partner più il censo che la salute e nelle abitudini di vita la superalimentazione piuttosto che la frugalità. Nella cittadina dove vissi la mia giovinezza serpeggiava l’opinione che un girovita abbondante fosse anche segno di maggiore difesa contro le malattie, specie la tbc o tisi, che dal greco significa per l’appunto consumarsi.
I miei nonni quindi non erano stati poi così sprovveduti se consideriamo che si dovette arrivare al 1938 quando, mentre loro raggiungevano il capolinea e l’Italia fascista si godeva beatamente l’autarchia culturale, i pochi che sapevano l’inglese lessero sull’Acta Medica Scandinavica le prime correlazioni, descritte da un certo Muller, fra la malattia coronarica e le tare nel gentilizio, come i nostri clinici raffinati chiamavano gli ascendenti e collaterali. Vi si accennava anche al colesterolo, quello che i ricercatori russi molti anni prima avevano scoperto nelle arterie dei conigli obbligati a un’alimentazione sbagliata.
Ma fu solo dopo la seconda guerra mondiale che l’autopsia nei giovani soldati americani caduti in Corea mostrò come le loro coronarie fossero già infarcite di quel grasso che, come diranno i posteri, la dieta non aveva controllato. Una dieta in parte dovuta alle abitudini familiari, ma anche a quella stabilita per le forze armate statunitensi dal dottor Ancel Keys, incaricato da Roosevelt a quella bisogna. Quello stesso Keys che anni dopo si ricrederà e, studiando i vantaggi delle parsimoniose abitudini negli italiani del sud e nei greci, proporrà la sua dieta mediterranea, priva delle componenti a rischio, come il cotechino di nonna Maria e gli eggs and bacon degli yankees. Ma priva anche del fumo, del mancato controllo della pressione e di un’inadeguata attività fisica. Insomma di tutto ciò che oggi viene indicato come stile di vita, le nostre sane abitudini, ma non i fattori ereditari o genetici, dei quali si preoccupava invece nonno Domenico.

Tempo fa un ampio studio pubblicato nel New England Journal of Medicine (dicembre 2016), nel quale erano coinvolti molti centri prestigiosi, dalla Divisione di Medicina Preventiva di Boston al Dipartimento di Scienze Cliniche dell’Università di Malmo in Svezia, dal Dipartimento di Genetica di Philadelphia all’Università di Houston, aveva valutato sia separatamente che in associazione proprio quei due rischi  delle malattie coronariche: quelli derivanti dalle predisposizioni genetiche e quelli dovuti alle deviazioni nocive nello stile di vita; ognuno dei due a loro volta suddivisi secondo i gradi minori e i maggiori di rischio. Il genetico veniva dedotto conteggiando i 50 loci cromosonici responsabili delle malattie coronariche (angina, infarto) e quello acquisito lo si otteneva sommando i “peccati” del nostro stile di vita (dieta, fumo, obesità, inattività fisica). Furono coinvolte complessivamente 55.685 persone, osservandovi che tanto più numerosi erano i loci di predisposizione genetica ereditati e tanto maggiori erano le errate abitudini di vita tanto più frequente risultava il rischio di ammalare. Naturalmente le cause genetiche, quelle che mio nonno consigliava di evitare sposando persone sane, non sono per ora curabili e tanto meno cancellabili se la combinazione è già avvenuta, mentre i fattori di rischio che si annidano nel nostro stile di vita lo sono. Come ha dimostrato quello studio dove i più sfigati nella genetica, ma morigerati nella dieta, contrari al fumo e attenti in tutto, ottenevano una riduzione di ben il 50% nel rischio di avere infarto o altri guai.
Consentendo quindi agli autori di quella nobile investigazione di concludere che, chi abbia sfortunatamente ereditato la “gobba” ma osservi uno stile di vita sano, ottiene una sostanziale riduzione del rischio di malattie coronariche. Verificabile non solo nella totalità dei casi, ma anche in tutti i differenti gradi di predisposizione genetica. Un risultato, vorrei ribadire, di così chiara e sicura prevenzione, a commento del quale non ho più aggettivi per raccomandarla.
E lascerei al filosofo Vito Mancuso il compito di farci volare più in alto rubandogli una sua riflessione, secondo cui le deviazioni genetiche sono sì il caos inevitabile, ma le correzioni che possiamo attuare migliorando il nostro stile di vita sono il logos, la libertà nell’intelligenza.

Eligio Piccolo
Cardiologo