Il trattamento di molte neoplasie è stato nell’ultimo decennio rivoluzionato dall’introduzione di innovative ed eterogenee strategie terapeutiche, globalmente indicate come immunoterapia. La caratteristica comune di tali terapie è quella di stimolare il sistema immunitario del paziente a contrastare le cellule tumorali. Tra i diversi tipi di immunoterapia, negli ultimi anni è diventato molto diffuso l’utilizzo dei cosiddetti Immune Checkpoint Inhibitors (ICI): anticorpi che hanno dimostrato risultati positivi e persistenti nella cura di molte neoplasie in passato difficili da trattare come melanomi, linfomi e diversi tumori polmonari, renali o del colon-retto.
Il meccanismo di azione di tali anticorpi è rappresentato dall’inibizione di checkpoint immunologici, la cui espressione sulle cellule ospiti è stimolata dalle cellule tumorali al fine di inibirne la risposta immunologica. L’inibizione di tali checkpoint si traduce in una potenziata attività dei linfociti T e un’aumentata risposta immunologica contro le cellule tumorali (1).
Attualmente abbiamo a disposizione circa 2000 molecole, dirette contro circa 300 target immunologici, prodotte da più di 800 aziende e studiate in più di 3000 trial clinici (2). Gli ICI attualmente più utilizzati sono diretti contro i seguenti checkpoint: il cytotoxic T-lymphocyte associated-antigen-4 (CTLA-4), il programmed death-1 (PD-1) e il suo ligando PD-L1. La percentuale di pazienti eleggibili a tali terapie è aumentata dall’1.5% nel 2011 al 50% nel 2020 (3).
L’ampia diffusione negli ultimi anni di questa nuova opzione terapeutica ha fatto emergere, tra gli altri effetti collaterali sistemici, una nuova forma di cardiotossicità, ossia la miocardite da ICI. Fattori di rischio per lo sviluppo della miocardite da ICI sono la terapia combinata con 2 o più ICI, il sesso femminile e l’età >75 anni (1). I meccanismi patogenetici del danno miocardico sono ancora poco chiari, ma posso almeno in parte implicare una de-regolazione e iper-attivazione linfocitaria e/o meccanismi di cross-reattività tra i target neoplastici e i cardiomiociti (1).
L’incidenza della miocardite da ICI riportata in letteratura è piuttosto bassa, con percentuali variabili da 0.1% a 1%. Tuttavia bisogna notare che la familiarità dei cardiologi con questa forma di cardiotossicità è ancora poco diffusa e che il percorso diagnostico non è ancora univoco e standardizzato. Pertanto, è ragionevole pensare che nei prossimi anni con la più estesa conoscenza di tale forma di cardiotossicità e con un maggiore sforzo diagnostico, l’incidenza della miocardite da ICI aumenterà significativamente. Ciò è particolarmente rilevante perché la prognosi dei pazienti con miocardite da ICI appare particolarmente infausta. Infatti, in un registro multicentrico che ha incluso 103 pazienti, il 40% ha sviluppato un evento cardiovascolare maggiore (MACE), definito come morte cardiovascolare, arresto cardiaco, shock cardiogeno e blocco atrioventricolare completo (4) . In un altro studio su 30 pazienti con cardiotossicità da ICI è stata riportata una mortalità del 27%(5). Inoltre, in un database di farmacovigilanza è stata osservata una mortalità cardiovascolare del 39.7% (56).
La presentazione clinica della miocardite da ICI è estremamente eterogenea e varia da incrementi isolati della troponina a quadri clinici caratterizzati da sintomi aspecifici come affaticamento e mialgie (nei casi con concomitante interessamento miositico), dispnea, ortopnea, dolore toracico, fino a quadri fulminanti di shock cardiogeno, aritmie ventricolari refrattarie, blocco atrio-ventricolare completo o arresto cardiaco.
Data la possibile evoluzione fulminante, è importante che la diagnosi venga posta precocemente. Quali sono quindi gli step diagnostici fondamentali da seguire nella diagnosi?
Chiaramente l’elemento anamnestico di neoplasia trattata con ICI ha un ruolo principe nel far sorgere in dubbio diagnostico in quanto tipicamente i sintomi si presentano precocemente dopo la somministrazione, generalmente entro 3 mesi. Tuttavia, sono stati riportati anche dei casi ad insorgenza tardiva, dopo più di un anno dalla terapia (1) . Non è chiaro se questi casi tardivi rappresentino una reale insorgenza tardiva o piuttosto una diagnosi ritardata di una miocardite iniziata precedentemente o l’evoluzione verso la cardiomiopatia di una miocardite persistente.
Nei pazienti che si presentano con sintomi e segni elettrocardiografici ed ecocardiografi suggestivi di ischemia miocardica ovviamente è necessario procedere rapidamente a studio coronarografico per escludere la presenza di una sindrome coronarica acuta e quindi iniziare il work-up diagnostico-terapeutico della miocardite da ICI.
Recentemente Zhang L e coll. hanno proposto su JACC Oncology un algoritmo diagnostico da applicare nei pazienti in cui si sospetta una miocardite da ICI (1). In questi pazienti, oltre alla valutazione basale con elettrocardiogramma, troponina e BNP/NT-proBNP, è indicato uno studio ecocardiografico completo con valutazione del global longitudinal strain (GLS). E’ stato infatti riportato che anche in presenza di normale frazione di eiezione, un GLS ridotto è indice di disfunzione sistolica subclinica e si associa ad una prognosi infausta (7).
Nei pazienti stabili, lo step diagnostico successivo è rappresentato dalla risonanza magnetica cardiaca (RMC). Tuttavia, l’analisi qualitativa standard del late gadolimiun ehnancement (fibrosi) e delle sequenze T2-pesate STIR (edema) ha dimostrato di non permettere un’adeguata identificazione della miocardite da ICI, contrariamente a quanto succede nelle altre forme di miocardite (4). Pertanto, nel sospetto di miocardite da ICI viene raccomandato di effettuare una RMN quantitativa con il mapping parametrico. In un lavoro appena pubblicato su JACC (8), 79 pazienti con miocardite da ICI, inclusi in un registro multicentrico internazionale, sono stati sottoposti a RMC con T1 e T2 mapping. L’analisi quantitativa del mapping ha identificato la presenza di fibrosi (elevato T1 mapping) e di edema (elevato T2 mapping) rispettivamente nel 95% e 53% dei casi di miocardite da ICI confermata alla biopsia o secondo i criteri diagnostici della Società Europea di cardiologia (9). Elevati valori di T1 mapping erano un predittore indipendente di MACE nel follow-up (mediana 158 giorni).
Nei casi in cui la RMC non sia dirimente (o non disponibile) e il sospetto clinico persista, è indicato procedere a biopsia miocardica, effettuando idealmente multipli prelievi (almeno 5) per aumentare l’accuratezza diagnostica.
La biopsia miocardica rappresenta un’indagine prioritaria nei pazienti emodinamicamente instabili, in cui deve essere contestualmente impiantato un sistema di assistenza meccanica al circolo. I reperti bioptici in questi pazienti confermano la presenza di infiltrati di linfociti T (prevalentemente CD3+, CD4+ e CD8+), macrofagi e raramente linfociti B, con concomitante necrosi miocardica e fibrosi. Tali reperti sono simili a quelli osservati nel rigetto d’organo.
Sulla base di questa somiglianza si è iniziato a trattare questi pazienti con farmaci comunemente utilizzati contro il rigetto, ossia gli immunosoppressori. Purtroppo non esistono studi prospettici e/o randomizzati che abbiano valutato il trattamento dei pazienti con miocardite da ICI. Nel loro lavoro su Jacc Oncology, Zhang L e coll (1) hanno proposto il loro protocollo che prevede, insieme alla sospensione degli ICI, l’utilizzo di corticosteroidi ad alte dosi endovena (metilprednisolone 1 g die), come strategia di prima linea. Nei pazienti emodinamicamente instabili, inotropi ed un eventuale supporto meccanico devono essere contestualmente utilizzati. Dopo stabilizzazione emodinamica e/o quando gli indici di miocardionecrosi iniziano a decrescere, gli autori consigliano di iniziare a ridurre il dosaggio dei corticosteroidi (prednisone 1-2 mg/kg die per os), che comunque devono essere continuati per almeno 6-12 settimane. Nei pazienti che non rispondono a tale approccio, possono essere considerate in alternativa altre terapie immunosoppressive con anticorpi monoclonali e immunoglobuline (1). Ovviamente ulteriori studi e adeguate comparazioni randomizzate sono necessarie per definire quale sia la terapia migliore per la gestione di questi pazienti.
Dato l’importante impatto prognostico positivo degli ICI nel trattamento di molte neoplasie, un altro importante aspetto da considerare è la possibilità di un re-challenge con gli ICI nei pazienti che sviluppino una miocardite da ICI. In letteratura esiste molta eterogeneità di comportamento, tuttavia un approccio ragionevole è quello di non effettuare il re-challenge nei pazienti che presentino grave disfunzione ventricolare sinistra, disturbi della conduzione e aritmie ventricolari.
La cardiotossicità da ICI tuttavia potrebbe non essere limitata alla sola miocardite. Infatti, alcuni dati di ricerca di base supportano l’ipotesi che gli stessi checkpoint immunologici che vengono inibiti dai farmaci antitumorali siano anche delle molecole regolatrici inibitorie dello sviluppo dell’aterosclerosi. Ad esempio, in un recente studio su topi ipercolesterolemici, l’inibizione del checkpoint CTL-4 accelerava la progressione di aterosclerosi attraverso l’induzione di infiammazione mediata dai linfociti T con formazione di placche con un abbondante cuore necrotico e scarso collagene (10). Da un punto di vista clinico, in una pooled analisi di 59 trial oncologici (21.664 pazienti), è stato osservato un incremento del rischio di ischemia coronarica del 35% nei pazienti trattati con ICI rispetto ai pazienti trattati con altri chemioterapici (11) .
La correlazione tra terapia con ICI ed eventi cardiovascolari è però ancora molto poco chiara ed è pertanto evidente che studi specificatamente disegnati per approfondire i meccanismi, l’incidenza e le implicazioni prognostiche di questa ulteriore forma di cardiotossicità sono necessari.
In conclusione, la terapia con ICI sta sicuramente rivoluzionando la storia naturale di molti tumori, tuttavia la coesistenza di effetti benefici e cardiotossici anche fulminanti, la fa apparire come il nuovo “Dr. Jekyll and Mr Hyde” della cardioncologia. Ogni cardiologo deve essere preparato a risolverne “il mistero diagnostico” e a trattarla con successo.
REFERENCES
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