Questione controversa perché da un lato, da sempre e da tutti si ritiene che lo sport faccia bene alla salute, oltre che alla prestanza e alla silouette; dall’altro negli ultimi cinquant’anni si è insinuato un allarme non da poco, la morte improvvisa sul campo o la comparsa di malattie di cuore durante il curriculum sportivo. Questo secondo aspetto ha generato in tutto il mondo medico occidentale numerose ricerche per capire meglio il rischio e quali misure prendere. Il merito va dato principalmente agli italiani, che con prontezza e competenza hanno risposto alle preoccupazioni dei genitori, scioccati dalle notizie sulla caduta dei loro ragazzi, non più in guerra, ma nel gioco che dovrebbe invece renderli più forti e sani. Una conquista la nostra che ci ha appuntato sul petto numerosi riconoscimenti internazionali, documentati dalla pubblicazione sulla più prestigiose riviste mediche dei risultati, che comprendevano anche qualche scoperta.
Le nostre antenne politiche, sempre ritte sui fatti che sconvolgono l’opinione pubblica e il consenso, non si sono fatte sorprendere e hanno indotto i legislatori a confezionare una legge per tutelare quei poveri ragazzi. Che nel frattempo erano diventati anche uomini maturi e anzianotti, visto che qualche infarto, ictus o morte improvvisa potevano accadere pure tra gli affezionati alle maratone o al golf.
Questa pronta iniziativa politica sull’onda dell’entusiasmo di fare una cosa giusta è tipica di noi italiani, generosi ma poco riflessivi su quello che sarà il costo-beneficio. Così come avviene oggi con gli immigrati: avanti tutti, ma poi non c’è un piano per la loro gestione. Infatti, per rimanere nello sport, quella legge ha comportato l’istituzione di numerosissimi addetti alla Medicina Sportiva, la certificazione obbligatoria a tutti, giovani e vecchi, Maradona o brocchi, ma soprattutto la responsabilità medico-legale completamente sulle spalle dei medici estensori di quei certificati, e la conseguente necessità di costoro nel cautelarsi con numerosi esami dispendiosi, per il 90% inutili. Il tutto, come dice la statistica allo scopo di soccorrere un atleta su centinaia di migliaia di soggetti analizzati. A corollario della certificazione per i non agonisti, quali potrebbero essere gli iscritti a una partitina scapoli-ammogliati, il legislatore ha stabilito, non si sa su quale pensata “intelligente”, che la possono redigere solo il medico di base e il pediatra, non il cardiologo.
Gli altri paesi occidentali, più attenti a non espandere il loro debito pubblico, hanno accolto con altrettanta apprensione il problema e con entusiasmo le nostre ricerche; sono stati corretti nel riconoscere i nostri meriti, ma ci hanno fatto anche il conto della serva e concluso che loro quella legge e quell’impianto di prevenzione non se li possono permettere. Non la Romania o la Grecia, che hanno già tanti problemi di base, ma gli Stati Uniti e gli occidentali più progrediti sono quelli che hanno opposto tali riserve. Naturalmente gli stessi sentono che si dovrebbe fare qualcosa di più e di meglio, e per mettersi a posto con la coscienza, continuano a ricercare e a rivalutare il rischio effettivo che grava su coloro che fanno sport, competitivo o amatoriale.
L’ultima indagine, pubblicata sul New England Journal of Medicine di novembre 2017, ci arriva dall’Università di Toronto dove Cameron Landry e il suo gruppo del Rescue investigators hanno seguito per cinque anni, dal 2009 al 2014, 18.5 milioni di persone per anno, di età dai 12 ai 45 anni. Al consuntivo si sono registrate 74 morti improvvise, 16 durante competizioni sportive e 52 in sport non competitivi. Il rischio nelle prime, le stesse che hanno promosso la nostra legge, è stato calcolato in 0.76 casi su 100.000 atleti per anno. Ma quasi la metà di questi sfortunati, che all’inizio sembravano deceduti, grazie al pronto intervento, sono sopravvissuti.
Va considerato che l’inclusione in questo studio canadese di atleti fino ai 45 anni, età che i Del Piero e i Totti hanno rinunciato a raggiungere, aumenta la possibilità di infarto come causa del tragico evento; e in effetti tra i più giovani che si accasciarono durante sport competitivo solo il 18% aveva avuto un’offesa coronarica, mentre nei non competitivi questa incideva per il 50%, tre volte tanto. Gli sventurati atleti che in Italia quarant’anni fa “suggerirono” la famosa Legge che tutti ci lodano, ma nessuno vuole, erano, ripeto, fra quelli più giovani e meno inclini all’infarto. Va da sé che se in quella ricerca fossero stati inclusi anche gli ultra 45enni sarebbero ovviamente aumentate le malattie dell’età.
In conclusione, un problema assistenziale che, grazie ai molti studi, oggi possiamo gestire meglio con le direttive suggerite dalla prevenzione raggiunta, e quindi lasciare liberi molti sanitari, più utili nei pronto soccorsi e nelle terapie intensive piuttosto che nei numerosi “cercatifici” a responsabilità illimitata.
E mo’ che abbiamo scoperto questo meraviglioso vaso di Pandora, che si fa? D’Annunzio diceva “cosa fatta capo ha”, ma questo è un capo che, dopo averci dato le conoscenze necessarie e di cui è giusto gloriarci, oggi potrebbe e, a mio modesto avviso come dicono i politici, dovrebbe ripensare seriamente a come togliere al medico tanta responsabilità superflua, mentre è già sotto l’occhio ipercritico dei molti saputelli in geometrica progressione, sempre pronti con l’avvocato appresso per ogni “errore diagnostico”, nonché sgravare lo Stato di una medicina di lusso. Temo però che il tutto sarà incorreggibile, come certi Enti e privilegi anacronistici che nessun Cotarelli è riuscito finora a tagliare.
Eligio Piccolo
Cardiologo