Il PACMAN-AMI trial: gli anticorpi anti-PCSK9 stabilizzano l’aterosclerosi coronarica e spengono l’infiammazione
di Flavio Giuseppe Biccirè - Francesco Prati
26 Aprile 2022

La riduzione dei livelli di colesterolo LDL (C-LDL) rappresenta ormai la pietra miliare della contemporanea cura dei pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica.

Studi in-vivo con l’ecografia intravascolare (IVUS) hanno evidenziato come l’utilizzo delle statine ad alte dosi sia in grado di ridurre il burden di placca aterosclerotica coronarica con una relazione lineare tra i livelli di C-LDL raggiunti e la riduzione del carico di ateroma coronarico al follow-up intra-vascolare.

Negli ultimi anni, i trials sull’utilizzo degli anticorpi monoclonali anti-PCSK9 hanno mostrato come un abbassamento maggiore dei livelli plasmatici di colesterolo a bassa densità si associ ad una riduzione ulteriore della mortalità e morbilità cardiovascolare dei pazienti coronaropatici.

Inoltre, sebbene le statine rappresentino una terapia di prima linea per la prevenzione secondaria, oltre il 50% dei pazienti trattati con statine non raggiunge i livelli target di C-LDL riportati dalle ultime linee guida ESC1. Gli inibitori di PCSK9 sono dunque emersi come una preziosa terapia aggiuntiva nei pazienti che richiedono un’ulteriore riduzione del C-LDL nonostante la terapia con statine. Questi farmaci, infatti, sono in grado di abbassare ulteriormente i livelli di C-LDL di circa il 60%, riducendo gli eventi cardiovascolari avversi maggiori sia nei pazienti con sindrome coronarica cronica che acuta.

Studi intravascolari con follow-up a 1 anno, come il GLAGOV trial, hanno confermato come la riduzione ulteriore dei livelli di C-LDL raggiunta con gli anticorpi monoclonali in comparazione alle sole statine si associ a una riduzione in percentuale del volume dell’ateroma, misurata tramite IVUS2.

L’aterosclerosi coronarica, però, è una complessa patologia caratterizzata da una sostanziale eterogeneità di composizione: l’ateroma può essere composto da elementi stabili come deposizioni lipidiche a prevalente componente fibrotica e da altri elementi meno stabili, come una larga componente lipidica altamente infiammata ricoperta da un cappuccio fibroso sottile e prono alla rottura. Numerosi studi in-vivo hanno ormai dimostrato come la presenza di queste ultime componenti esponga i pazienti ad un altissimo rischio di eventi avversi come infarto miocardico e morte cardiaca, spostando l’attenzione dalla quantificazione del volume dell’ateroma alla caratterizzazione fine della sua composizione3, 4. La sola metodica IVUS, infatti, permette una quantificazione del carico di placca aterosclerotica ma non consente di apprezzarne la composizione. Grazie alla sua alta risoluzione, la tomografia a coerenza ottica (OCT) è in grado invece di misurare lo spessore del cappuccio fibroso e la presenza di cellule infiammatorie. Parallelamente, la spettroscopia nel vicino infrarosso (NIRS) è stata validata per il rilevamento e la quantificazione del contenuto lipidico all’interno delle placche aterosclerotiche coronariche. Nel loro insieme, queste modalità forniscono approfondimenti complementari sul carico lipidico e la composizione della placca, permettendo una migliore stratificazione del rischio conferito dalla presenza degli elementi di vulnerabilità.

Il PACMAN-AMI trial, studio multicentrico randomizzato in doppio cieco presentato all’ultimo congresso ACC 2022 e pubblicato simultaneamente su JAMA, ha il merito di utilizzare simultaneamente tutte le metodiche di imaging invasive disponibili in grado di valutare i cambiamenti fenotipici della placca aterosclerotica5.

Per valutare gli effetti degli inibitori di PCSK9 sui parametri di vulnerabilità di placca, Raber e colleghi hanno studiato con IVUS, NIRS e OCT 300 pazienti ricoverati con infarto miocardico e randomizzati (1:1) a trattamento con alirocumab+statine vs. solo statine, studiandone al tempo 0 e dopo 52 settimane le due arterie coronarie non responsabili dell’infarto.

I ricercatori hanno utilizzato l’IVUS per valutare il volume dell’ateroma, la metodica NIRS per valutare il carico del core lipidico (il LCBI) e l’OCT per valutare sia lo spessore del cappuccio fibroso che l’infiltrazione macrofagica. Dopo 52 settimane, i pazienti trattati con alirocumab e statine ad alta intensità hanno avuto una riduzione maggiore della variazione media del volume percentuale di ateroma nelle arterie non correlate all’infarto (endpoint primario di efficacia) rispetto ai pazienti che hanno ricevuto statine in monoterapia (-2,13% contro -0,92%; p<0.001). L’aggiunta di alirocumab è stata inoltre associata a una maggiore riduzione del carico lipidico della placca (la variazione media del LCBI massimo entro 4 mm era -79,42 con alirocumab e -37,60 con placebo, p=0.006), un aumento maggiore dello spessore minimo del cappuccio fibroso (cambiamento medio 62,67 μm contro 33,19 μm, p=0.001) e una riduzione maggiore dell’estensione angolare dell’infiltrazione macrofagica (p<0.001).

I risultati del PACMAN-AMI trial confermano ed estendono quelli dello HUYGENS trial, studio pubblicato lo scorso anno e che aveva dimostrato un aumento medio dello spessore del cappuccio fibroso minimo (analizzato all’OCT) di 29,8 μm con placebo e 62,3 μm con evolocumab in 135 pazienti ammessi con diagnosi di infarto6.

Entrambi gli studi hanno sottolineato l’importanza dell’utilizzo di metodiche avanzate come l’OCT e l’IVUS-NIRS per lo studio della composizione della placca aterosclerotica. Difatti, si contrappongono agli scarsi risultati ottenuti tramite l’istologia virtuale in un sottostudio del GLAGOV trial condotto per rilevare i cambiamenti morfologici della placca dopo trattamento con evolocumab.

La riduzione maggiore dell’estensione angolare dell’infiltrazione macrofagica evidenziato nello studio PACMAN-AMI (p<0.001) è un aspetto di grande interesse.  Si noti come lo studio HUYGENS non avesse valutato la componente infiammatoria. Va peraltro sottolineato che i trials con inibitori PCSK9  non avevano ridotto in modo significativo il valore della PCr, a differenza degli studi condotti con statine, che evidenziavano una riduzione dei marcatori sistemici di infiammazione parallelamente all’abbassamento della colesterolemia.

In conclusione, la composizione della placca aterosclerotica è sempre più al centro della moderna cardiologia di prevenzione. La terapia precoce con inibitori di PCSK9 subito dopo infarto miocardico è in grado di stabilizzare le caratteristiche vulnerabili della placca aterosclerotica maggiormente rispetto alla sola terapia intensiva con statine, ponendo le basi per un maggior utilizzo su larga scala di questi farmaci, capaci di cambiare la storia naturale dei pazienti con coronaropatia.

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6.Nicholls SJ, Kataoka Y, Nissen SE, Prati F, Windecker S, Puri R, Hucko T, Aradi D, Herrman JR, Hermanides RS, Wang B, Wang H, Butters J, Di Giovanni G, Jones S, Pompili G, Psaltis PJ. Effect of Evolocumab on Coronary Plaque Phenotype and Burden in Statin-Treated Patients Following Myocardial Infarction. JACC Cardiovasc Imaging 2022.