In un recente numero del New England Journal of Medicine vengono coraggiosamente anticipati alcuni dati su un (ennesimo) nuovo approccio all’ipercolesterolemia LDL, in questo caso omozigote.
Come è noto, la maggior parte delle persone è ipercolesterolemica perché incapace di limitare le proprie pulsioni: mangia male e troppo, ed è inattiva fisicamente.
Un/a neonato/a su circa 150-200, purtroppo, è però ipercolesterolemico/a per cause monogeniche, per fortuna allo stato di eterozigosia. Pertanto, questo neonato/a potrà facilmente rimediare alla propria sfavorevole condizione genotipica con dieta, attività fisica, statine e, soprattutto, inibitori di PCSK9.
Per converso, un numero molto limitato di neonati/e non potranno mai rimediare efficacemente alla loro condizione perché omozigoti. In questi individui, infatti, dieta, attività fisica e statine ottengono risultati modestissimi, se non insignificanti. Gli inibitori di PCSK9 possono fornire anche nella condizione di omozigosia un aiuto a volte consistente, ma più spesso non soddisfacente. Ciò a causa della povertà o assenza – solo nella condizione di omozigosia si intende – del loro bersaglio indiretto: il recettore per le LDL. Per questo, lomitapide, mipomersen ed LDL-aferesi sono sovente le uniche armi efficaci nei rari casi di ipercolesterolemia omozigote.
Inutile a dirsi: queste armi sono efficaci, ma anche estremamente costose ed impegnative – nel caso dell’aferesi – per la qualità di vita del paziente affetto.
In questo contesto, Gaudet e collaboratori hanno trattato, in aperto, nove adulti affetti da ipercolesterolemia omozigote mediante evinacumab, un antagonista della proteina angiopoietina-simile 3 (ANGPTL3) espressa a livello epatico, implicata nel metabolismo delle LDL. I risultati sono stati sorprendenti, con riduzioni medie percentuali ed assolute del colesterolo pari, rispettivamente, al 49% ed a – 157 mg/dL dopo 4 settimane di terapia. Il decremento del colesterolo LDL era sicuramente non completamente soddisfacente (il colesterolo LDL, dopo 4 settimane, rimaneva comunque mediamente superiore a 200 mg/dL). Tuttavia, nessuno dei pazienti doveva sospendere la terapia e, pertanto, è possibile concludere – o almeno suggerire con forza – come il monoclonale evinacumab sembri rappresentare un altro passo avanti nella cura di una malattia fortunatamente assai rara, ma che in assenza di cure costose ed impegnative per il paziente quali la LDL-aferesi è gravata da una mortalità cardiovascolare precoce che interessa la quasi totalità dei pazienti affetti.
Prof. Claudio Ferri
Direttore della Scuola di Medicina Interna
Università degli Studi L’Aquila