Molti anni fa durante un convegno di medicina sportiva incontrai Sara Simeoni, da poco vincitrice dell’oro a Mosca. Bella, alta e atletica. Ci fecero anche una foto insieme, protocollare, non il selfie di oggi. L’ho rivista recentemente su un giornale, al confronto sono un vecchiaccio, lei ancora una bella signora, che si dedica all’insegnamento delle atlete. Ha solo perduto, fisiologicamente si capisce, quel quid che caratterizza le più giovani, e che un secolo e mezzo fa Giacomo Leopardi, la cui unica ignoranza era l’endocrinologia, aveva descritto in quel poetico confronto fra l’anziana, che filava “incontro là dove si perde il giorno” novellando “del suo buon tempo, quando… ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei ch’ebbe compagni dell’età più bella.”. Sfido i più grandi clinici del passato, da Osler a Frugoni, per i quali lo scibile medico consentiva ancora di fare la sintesi, di definire con due soli aggettivi, sana e snella, quel quid. Che la scienza medica successivamente ha collegato agli ormoni ipofisari, alle ovaie e alle surrenali, nonché a quella zona del cervello che sovrintende a varie funzioni, l’ipotalamo, e anche alla misteriosa ghiandola a forma di mandorla, l’amigdala. A tutte queste frattaglie, che ci hanno privato il poetico “sana e snella”, dobbiamo quel quid, l’inizio e la continuazione dei cicli della donna fino alla sua menopausa.
Tale cambiamento della prima giovinezza femminile, che gli spagnoli chiamano “regla”, regolamento della sua vita sessuale, ma i medici, fissati nell’etimologia greca, definiscono con il cacofonico menarca, inizia appunto nell’adolescenza e la fa sentire maggiorenne. Non solo, perché negli anni a seguire la proteggerà da certe malattie che insidiano precocemente l’uomo, anche se talvolta fa soffrire. Noi maschi ne siamo informati da ragazzi senza chiedere di più, sia per pudore che per ignoranza medica, ma, dato il mistero e la vaga sofferenza in alcune compagne, l’abbiamo considerata per anni una specie di indisposizione periodica. Più tardi però come un noioso impedimento. Quando poi, all’inizio del secolo scorso, sia le ragazze che le donne già mature non hanno più voluto rinunciare a certi passatempi maschili come l’attività sportiva e il fumo, pare si sia mosso l’universo tradizionalista, lo stesso che oggi vediamo emergere nel mondo islamico.
Fu difficile togliere l’ingombro della gonna, contenere quello della chioma, nuotare con il costume, e quando arrivavano i giorni dell’impedimento, cosa fare. Al mare, ai miei tempi, le amiche dicevano “non mi va di fare il bagno”, i più maliziosi capivano, gli altri insistevano; oggi il progresso ha superato l’ostacolo. E poi a quel tempo come vedersela con la religione che anche fra i cristiani era piuttosto segregazionista? Nel nostro occidente tutto è stato superato dal progresso, anche filosofico, dalla modernità travolgente, ma soprattutto dall’emancipazione femminile. L’uomo, regolatore dello sport, si è limitato a distinguere le differenti capacità fisico-muscolari e quindi a stabilire la suddivisione in due categorie, oltre all’opportunità di escluderla da certi sport da superman, e quando i due sessi giocano insieme, come nel golf, concedere alle signore una partenza avvantaggiata.
Tuttavia, poiché il tutto era stato da sempre impostato per lui, per i suoi muscoli, per la sua prestanza fisiologico-sportiva e per le sue reazioni, non si sapeva come lei avrebbe risposto all’impegno fisico, specie quando questo diventava continuativo negli allenamenti e agonistico nelle gare. In lei che la natura aveva provvisto di una maggiore quantità di adipe rispetto alla muscolatura, per quel modellamento che tanto piace a lui, ma che diventa incompatibile con certi risultati ludici, specie quando la donna vuole rivaleggiare un po’ troppo. Gli studi medici successivi infatti ne hanno rilevato i limiti segnalando che alcune atlete, impegnate a ridurre con attività fisica e diete il rapporto fra grasso e muscoli, perdono i cicli e diventano anoressiche.
Cambiamento confermato del laboratorio, che denuncia una riduzione degli estrogeni, gli ormoni che sostengono i cicli e danno anche la femminilità. A questo punto gli esegeti, preoccupati, sono voluti andare più a fondo e, ricordando quanto avviene fisiologicamente nella menopausa, quando la loro scomparsa fa iniziare un percorso simile all’uomo nel rischio di malattie cardiovascolari, hanno rivalutato il problema. Ossia verificare se quelle amenorree sono dovute a un’azione negativa dello sport sulla salute della donna. A farla breve, non c’è alcun dubbio che laddove l’attività fisica le induce una perdita eccessiva del suo adipe, una tendenza all’anoressia e allo stress, fino alla comparsa di ritardi o interruzione dei cicli, si osserva un calo degli estrogeni, infertilità, aumento di attività simpatica e della pressione, cali di glicemia con alzi di cortisone, tendenza all’osteoporosi e alle fratture, alterazioni nella parete delle arterie di tipo pre-arteriosclerotico e anche di qualche accidente vascolare. Una specie di recondito disastro, sottolineato dalla delusione di poterlo correggere somministrando gli estrogeni come farmaci sostitutivi senza cambiare lo stile di vita. Il corpo femminile e anche il maschile non sono evidentemente macchine da pezzi di ricambio, se non nei trapianti, che esigono però il lungo antirigetto.
Insomma, concludono quegli esperti, “i cicli della donna sono cicli vitali”, cui aggiungerei un altro banale aforisma: “la donna non è l’uomo”. E che i tentativi di copiarlo modificando la propria struttura fisica, così stupenda in Botticelli, le fa rischiare sia la femminilità che la salute. Come sempre, avevano ragione i latini raccomandando l’est modus in rebus, il quale nello sport, sia per le atlete che per gli atleti, significa: ognuno può dare ciò che la natura gli ha donato, il di più è patologico.
Eligio Piccolo
Cardiologo