GLIFOZINE E CUORE. Il punto di vista del Cardiologo
di Alessandro Battagliese
28 Maggio 2020

Fino a qualche anno fa l’obiettivo principale di trattamento nel paziente diabetico era rappresentato dalla riduzione dell’emoglobina glicata ed il paradigma terapeutico classico era incentrato su farmaci che determinano incremento (diretto o indiretto) della disponibilità di insulina o della sensibilità degli organi alla stessa.

Nel 2016 sono stati pubblicati i dati di 21 aa di follow up di un importante trial clinico, lo STENO-2 che randomizzava pazienti con diabete mellito tipo 2 (DMT2) e danno d’organo (microalbuminuria) a terapia ipoglicemizzante standard o a trattamento intensivo dei fattori di rischio ed un controllo più aggressivo del diabete con valori di emoglobina glicata target inferiori a 6,5%. È emerso che, a fronte di un netto impatto sulla sopravvivenza nel braccio di pazienti trattati con strategia più aggressiva, a questo non corrispondeva una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari che permaneva superiore al 30% a 10 aa.

Quindi a prescindere dall’intensità del trattamento ipoglicemizzante l’incidenza di eventi cardiovascolari rimaneva elevata.

Di qui l’esigenza, già raccomandata dalla FDA nel 2008, di un nuovo paradigma terapeutico e di trial disegnati ad hoc, che prendessero in considerazione non il solo compenso glicemico ma anche outcome cardiovascolari maggiori di efficacia e di sicurezza.

Nel 2015 viene introdotta una nuova classe di farmaci ipoglicemizzanti orali: gli inibitori del trasportatore sodio/glucosio tipo 2 (SGLT2) chiamati comunemente Gliflozine.

L’ SGLT2 è una proteina espressa nel tubulo prossimale renale e media il riassorbimento di circa il 90% del glucosio filtrato dal rene. L’inibizione di questo trasportatore promuove l’escrezione renale di glucosio. Pertanto il meccanismo principale di azione ipoglicemizzante è la glicosuria e la conseguente diuresi osmotica, totalmente indipendente dall’insulina. Ne consegue l’assenza di ipoglicemia a meno di altra terapia concomitante.

Lo studio EMPA-REG OUTCOME pubblicato su NEJM nel 2015 ha arruolato pazienti con diabete mellito tipo 2 con elevato profilo di rischio cardiovascolare, randomizzandoli a empagliflozin (10 o 25 mg) o terapia ipoglicemizzante standard. Outcome primario erano un composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale e stroke non fatale (MACE a 3 punti). Outcome secondari erano rappresentati dal primario in associazione a ospedalizzazione per angina instabile. L’analisi primaria includeva una popolazione di 7020 pazienti in cui a distanza di un anno si osservava una riduzione significativa dell’outcome primario del 24% nel gruppo trattato, con una separazione precoce delle curve di sopravvivenza già a 6-12 settimane. Ha sorpreso il dato di riduzione ampia ed immediata (6 settimane) delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco nel gruppo trattato pari al 35% e, per la prima volta, una riduzione della morte cardiovascolare (-38%) e per tutte le cause (- 32%) in una popolazione diabetica ad alto rischio cardiovascolare.

La precocità del vantaggio ottenuto suggeriva un effetto che andava oltre il compenso glicemico ma probabilmente legato alla riduzione di volume secondaria alla diuresi osmotica.

Un’analisi post-hoc pubblicata su NEJM nel 2016 che indagava gli outcome renali ha documentato, nel braccio di trattamento, una significativa ed ampia riduzione di deterioramento della funzione renale o del rischio di iniziare un trattamento dialitico in pazienti con malattia renale cronica moderato-severa e filtrato glomerulare uguale o superiore a 30 ml/min/1,73m2

Ma questi risultati rappresentano un effetto “di farmaco” o un “effetto di classe”?

Nel 2017 sempre su NEJM vengono pubblicati i dati dello studio CANVAS. Un totale di 10,142 pazienti diabetici tipo 2 e elevato rischio cardiovascolare sono stati randomizzati a Canagliflozin o terapia ipoglicemizzante standard. Outcome primario era un composito rappresentato da un MACE a 3 punti (morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale e stroke non fatale). Come nello studio EMPA-REG OUTCOME è stata osservata una riduzione del 24% dei MACE, anche se dall’analisi scorporata dell’outcome primario  non veniva raggiunta la significatività statistica per singolo punto.

Si confermava invece la riduzione significativa  (- 33%) e precoce delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e la riduzione della progressione dell’insufficienza renale e del ricorso a dialisi o della morte per cause renali.

Lo studio DECLARE-TIMI 58, ha arruolato circa 17000 pazienti con diabete mellito e fattori di rischio associati in cui il 40% aveva una malattia aterosclerotica cardiovascolare e il 10% aveva storia di scompenso cardiaco. Veniva confrontato il dapagliflozin alla terapia standard con ipoglicemizzanti orali. Outcome primario il solito MACE a 3 punti (morte cardiovascolare infarto e stroke non fatali) ed un composito di morte cardiovascolare e ricovero per scompenso cardiaco. Outcome secondario renale era un composito di peggioramento del filtrato glomerulare, comparsa di malattia renale allo stadio terminale, morte per cause renali e cardiovascolari e morte per tutte le cause.

I risultati dimostravano una riduzione non significativa dei MACE rispetto al placebo (HR 0.83; 95% CI, 0,73-0,95) ma confermavano una significativa riduzione dell’end point morte cardiovascolare e ricoveri per scompenso cardiaco, guidata prevalentemente da una riduzione dei ricoveri per scompenso (- 27%) e una significativa riduzione di quasi il 50% del peggioramento di insufficienza renale, morte per cause renali e  comparsa di malattia renale terminale.

Nessun trial, considerato singolarmente, aveva sufficiente potenza statistica per fornire dati significativi nei pazienti in prevenzione primaria   con multipli fattori di rischio cardiovascolare, dato il basso numero di eventi in questa sottopopolazione.

Nel 2019 è stata pubblicata su Lancet una elegante metanalisi dai colleghi del Brigham and Women’s Hospital di Boston (Thomas A Zelniker primo nome) che combinava i dati dei tre studi di outcome cardiovascolare  dei SLGT2i citati al fine di valutarne l’efficacia in termini di riduzione dei MACE, di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e morte cardiovascolare, nonché di riduzione di outcome renali, stratificando i pazienti per storia di eventi cardiovascolari, storia di scompenso cardiaco e livelli di filtrato glomerulare stimato.

Sono state analizzate anche sei sottoanalisi dei suddetti trial per un totale di 34,322 pazienti di cui il 60% in prevenzione secondaria ed il 40% circa in prevenzione primaria, con multipli fattori di rischio. In generale l’11% circa dei pazienti aveva una storia di scompenso cardiaco al basale (dato sostanzialmente sovrapponibile nei tre trial mentre i pazienti con compromissione renale (eGFR < 60 ml/min) era variabile tra il 25,9% nello studio EMPA-REG al 20,1% nello studio CANVAS , al 7,4% nel DECLARE-TIMI 58.

Nel complesso la terapia con SLGT2i ha ridotto globalmente i MACE del 11% ma con beneficio limitato alla sola popolazione in prevenzione secondaria con evento cardiovascolare pregresso (HR 0,86; IC 95% 0,83-0,96; p=0,0014); nessun effetto nei pazienti con solo multipli fattori di rischio (HR 1,00; IC 95%, 0,87-1,16; p = 0,98).

Il trattamento con SGLT2i ha ridotto il rischio dell’outcome composito morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso cardiaco del 23% (HR 0,77; IC 95%, 0,71-0,84; p ≤0,0001), con beneficio simile nei pazienti in prevenzione primaria e secondaria e con o senza storia di scompenso cardiaco al basale; la riduzione del solo rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco era molto robusta, arrivando al 30%.

Si confermava una riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause (HR 0,85; IC 95%, 0,78-0,93; p = 0,0002), ma con alta eterogeneità fra i trial.

Confermata anche la riduzione del rischio di progressione del danno renale, insufficienza renale terminale e morte per cause renali del 45% (HR 0,55; IC 95%, 0,48-0,64; p ≤0,0001) sia nei pazienti in prevenzione primaria e secondaria.

Il beneficio variava in relazione alla funzione renale al basale con una minore, ma comunque significativa, riduzione dell’outcome renale e una maggiore riduzione del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti con malattia renale più severa.

In definitiva il messaggio che ci trasmettono tutti questi trial singolarmente o in maniera metanalitica è che la terapia con gliflozine conferisce, nei pazienti con diabete mellito tipo 2, un chiaro vantaggio in termini di eventi cardiovascolari maggiori soprattutto nei pazienti con alto profilo di rischio ed uno o più eventi cardiovascolari associati (prevenzione secondaria). Ma il dato trasversale ancor più impressionante è la significativa riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e della progressione del danno renale, come peculiare effetto di classe.

La precoce divergenza delle curve di sopravvivenza e la relativamente modesta riduzione dell’emoglobina glicata lascerebbe intuire un beneficio cardiovascolare “ancillare” e peculiare  dei SGLT2i al di la del semplice controllo glicemico.

L’esatto meccanismo rimane ancora sconosciuto. E’ possibile ipotizzare che gli effetti di nefroprotezione associati alla natriuresi potrebbero spiegare, almeno in larga parte, la riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco. Infatti i pazienti con maggior compromissione renale sono quelli a maggior rischio di ricovero per scompenso cardiaco. La riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso e della progressione del danno renale e delle complicanze correlate potrebbe spiegare la riduzione della mortalità cardiovascolare e totale. Gli effetti benefici sull’infarto ancora sono in fase di investigazione. Altro meccanismo ipotizzato è la riduzione del consumo miocardico di ossigeno e del lavoro cardiaco mediante modifiche del pre e post carico secondarie alla riduzione della volemia e della pressione arteriosa, riduzione dello stifness arterioso e delle resistenze arteriose periferiche ed un conseguente aumento della compliance aortica e un miglioramento dell’accoppiamento ventricolo-arterioso. Infine si ipotizza un effetto benefico metabolico sul muscolo miocardico derivante dall’utilizzo di chetoni quale fonte energetica con riduzione degli effetti glucotossici.

Potremmo pertanto definire questa classe di farmaci come una nuova classe di farmaci cardiovascolari con effetti ipoglicemizzanti.

Ma questo giustificherebbe il loro impiego in ambito cardiologico anche in pazienti non diabetici, in considerazione del bassissimo rischio di ipoglicemia e del meccanismo d’azione? Una sorta di diuretico evoluto con impatto positivo su morbilità e sopravvivenza?

Ancora ci sono pochi dati a disposizione ma comunque molto interessanti e promettenti.

Lo studio DAPA-HF presentato al congresso Europeo di Cardiologia a Parigi nel 2019 e pubblicato sempre su NEJM ha arruolato pazienti con scompenso cardiaco avanzato in prevalenza non diabetici, per la maggior parte in classe funzionale NYHA 2-3, frazione di eiezione media del 31%, una mediana di NT-pro-BNP di circa 1400 pg/ml. Il 26% era portatore di defibrillatore impiantabile e nel 7-8% era stato sottoposto a terapia di resincronizzazione cardiaca. La popolazione era in terapia medica ottimale per lo scompenso cardiaco: il 93% assumeva terapia con inibitori del sistena renina-angiotensina (ACE-I, Sartani e inibitori del recettore dell’angiotensina e della neprilisina); il 96% assumeva beta bloccanti ed il 70% mineral corticoidi (dati estremamente  indicativi del livello ottimale di trattamento della popolazione se si pensa che nello studio PARAGON HF la percentuale di pazienti che assumeva mineral corticoidi era di circa il 55%).

4744 pazienti sono stati randomizzati a dapagliflozin 10 mg al giorno o placebo.

Outcome primario era rappresentato da un composito di peggioramento /instabilizzazione di scompenso cardiaco, rappresentato da ospedalizzazione non programmata o ricorso a terapia diuretica endovenosa, e morte cardiovascolare.

Outcome secondari erano un composito di ospedalizzazione per scompenso e morte cardiovascolare, miglioramento della qualità di vita, e un composito di peggioramento della funzione renale (declino del filtrato glomerulare > o uguale del 50%, ricorso a dialisi e/o trapianto,   morte per cause renali) e morte per tutte le cause.

Al termine dei 24 mesi di follow up si osservava un’ampia e significativa riduzione dell’end-point primario peggioramento scompenso e morte cardiovascolare del 36% in termini relativi e di quasi il 4% in termini assoluti (hazard ratio, 0.74; 95% CI 0,65 to 0.85; P<0.001) con una riduzione del 30% delle ospedalizzazioni, di circa il 20% della mortalità cardiovascolare e di quasi il 60% di visite urgenti per instabilizzazione di scompenso cardiaco con un numero di pazienti da trattare con dapagliflozin per prevenire un evento primario (NNT) di 21 (95% CI, 15-38).

Tra gli outcome secondari spiccava la riduzione del 25% di ospedalizzazione e morte cardiovascolare, di quasi il 30% del peggioramento della funzione renale e di quasi il 20% della mortalità totale (HR 0,83 CI 95%; 0,71-0,97).

L’analisi per sottogruppi confermava la consistenza dell’effetto di Dapagliflozin in tutte le categorie a prescidere da età , sesso, frazione di eiezione, valori di peptide natriuretico, terapia dello scompenso cardiaco assunta, eziologia dello scompenso cardiaco e funzione renale al basale. In particolare il beneficio era invariato a prescindere dalla assunzione o meno di sacubitril/valsartan anche se questa terapia era assunta solo dal 10% della popolazione studiata.

Nessuna differenza significativa negli outcome di sicurezza ed in particolare nessuna differenza in termini di ipovolemia, eventi renali avversi, amputazioni, ipoglicemia e chetoacidosi.

Il beneficio si manifestava  anche con un significativo miglioramento della qualità di vita esplorata tramite il Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire.

Lo studio è la prima evidenza solida relativamente all’impiego e all’efficacia degli SGLT2i su una popolazione con scompenso cardiaco, in prevalenza non diabetica, ad alto rischio di ospedalizzazione e morte, che rafforza l’ipotesi dell’effetto peculiare cardiovascolare di questa classe di farmaci al di la del semplice controllo glicemico.

Se questi dati saranno confermati in altri studi con altri SGLT2i il cardiologo potrà avvalersi di una nuova efficace arma per la cura dello scompenso cardiaco. In particolare sarà interessante l’analisi dei risultati dei trial in corso sullo scompenso cardiaco a frazione preservata per il quale al momento i trattamenti a disposizione hanno documentato solo un modesto beneficio. Sarà oltremodo interessante valutare l’effetto sinergico delle gliflozine su una popolazione maggiormente rappresentata in trattamento con sacubitril/valsartan.

E’ auspicabile e necessaria una stretta collaborazione tra cardiologo e diabetologo, mediante l’utilizzo di percorsi condivisi, al fine di selezione il giusto paziente candidabile alla terapia con SLGT2i

 

 

Bibliografia consigliata

 

  • Gaede P, Vedel P, Parving HH, Pedersen O. Intensified multifactorial intervention in patients with type 2 diabetes mellitus and microalbuminuria: the Steno type 2 randomised study. Lancet. 1999;353: 617-622.
  • Gaede P, Oellgaard J, Carstensen B, et al. Years of life gained by multifactorial intervention in patients with type 2 diabetes mellitus and microalbuminuria: 21 years follow-up on the Steno-2 randomised trial. Diabetologia. 2016;59:2298-2307.
  • Zinman B, Wanner C et al for  the EMPA-REG OUTCOME Investigators. Empagliflozin, Cardiovascular Outcomes, and Mortality in Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2015;373:2117-28.
  • Neal B , Perkovic V et al for the CANVAS Program Collaborative Group. Canagliflozin and Cardiovascular and Renal Events in Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2017;377:644-57.
  • Wiviott SD, Raz I et al for the DECLARE-TIMI 58 Investigators. Dapagliflozin and Cardiovascular Outcomes in Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2019;380:347-57.
  • Zelniker TA, Wiviott SD et al. SGLT2 inhibitors for primary and secondary prevention of cardiovascular and renal outcomes in type 2 diabetes: a systematic review and meta-analysis of cardiovascular outcome trials. Lancet 2019; 393: 31–39.
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