FIBRILLANTI, CONTROLLATEVI IL PESO!
di Eligio Piccolo
09 Maggio 2019

Questa volta sembra proprio una cosa seria, che sul problema in discussione non è solo un modo di dire, ma una realtà intrigante. Non che le altre volte fossero meno serie, però, si sa, le raccomandazioni del medico o degli informatori più o meno qualificati a farle lasciano spesso il tempo e la noia che trovano. Quel tempo e quella noia cui molti pazienti e non pazienti guardano con fastidio o con autosufficienza: il solito  proibizionismo sul fumo, sui cibi grassi, sul sale e via discorrendo.

Questa volta però l’informazione va letta fino in fondo, non solo perché viene da due Università di tutto rispetto, Adelaide e Oxford, ed è pubblicata in prima pagina sul Journal of the Americann College of Cardiology, ma soprattutto perché la ricerca affronta un argomento già noto da molti anni e sul quale gli esperti pensavano si fosse fatto punto.

Infatti, che il sovrappeso o l’obesità avessero un’influenza negativa sul facilitare la fibrillazione atriale era cosa nota, il cui peso, è il caso di dire, non risultava maggiore di quello di tanti altri fattori implicati come l’ipertensione, il fumo e le libagioni eccessive. Che anche ad eliminarli tutti assieme non diminuiva di molto il rischio di cadere nell’aritmia che affligge oramai milioni di persone in tutti i paesi. Lo studio, invece, capeggiato dall’australiano Rajeev Pathak  ha tutte le caratteristiche di non essere una patacca, tanto per giocare sul cognome del coordinatore, ma di metterci sulla strada di un percorso che fonda la sua solidità su elementi che, pur non essendo la causa vera della fibrillazione, si collegano con i fattori che maggiormente la determinano. D’altra parte già lo studio Framingham, quello che da 74 anni segue gli abitanti di quel paesino, aveva segnalato che il rischio di avere fibrillazione atriale aumentava del 4% per ogni numero di aumento dell’indice di massa corporea. Così, ad esempio, se uno ha un indice di 27 (in sovrappeso di due punti) perché pesa 88 kg con un’altezza di 1.80 m ha già un rischio dell’8%, che aumenterebbe di un ulteriore 4% per ogni incremento di peso di circa 3 chilogrammi.

E veniamo allo studio citato, che comprese 825 pazienti affetti da varie forme di fibrillazione atriale, seguiti per lungo tempo con diversi trattamenti, di età media intorno ai 60 anni, prevalentemente maschi (65%) e con indice di massa corporea superiore a 27, ossia in sovrappeso od obesi. Furono divisi in tre gruppi: il primo che riuscì a perdere il 10% o più del peso di partenza, il secondo che lo diminuì dal 3% al 9% e i terzo che rimase sotto il tre per cento. Considerarono anche un quarto gruppo, i fluttuanti, quelli che difettavano in fermezza di propositi e si lasciavano periodicamente andare, con un peso che diminuiva e riaumentava a fisarmonica, secondo il prevalere della gola o della volontà. I risultati alla fine dello studio furono sorprendenti: si erano liberati della fibrillazione il 45.5% del primo gruppo, il 22.2% del secondo e solo il 13.4% del terzo gruppo. Come dire, tanto più diminuiva il peso e tanto meno si ricadeva in fibrillazione. Importante però anche il codicillo secondo cui una fluttuazione del peso del 5% o più influenzava negativamente il mantenimento del ritmo, addirittura dimezzandolo. Ossia conta molto la perseveranza nel migliorare e mantenere i risultati sul peso, così come sottolinea categoricamente il commentatore della ricerca con il seguente messaggio : ”loss the weight and then keep it off” (perdere peso e mantenerlo!).

A questo punto, visti gli effetti del dimagrimento, che sembrano quasi superiori a quelli dei farmaci antiaritmici e della stessa ablazione, gli autori e noi con loro ci domandiamo che cosa succede di così determinante in quella semplice perdita di chilogrammi, ancorché perseverante, da rendere gli atri meno suscettibili ad andare in tilt. I ricercatori dicono che si tratta di un “beneficial structural remodeling”, che tradotto nel nostro linguaggio significa tutta una serie di cambiamenti positivi dell’atrio sinistro, la sede dove origina la fibrillazione. Infatti, questa cavità del cuore, in coloro che hanno ottenuto i migliori risultati dal dimagrimento, riduce la  dilatazione, che si era verificata a causa dell’aritmia;  migliora anche il ventricolo sinistro che indirettamente aveva contribuito a innescarla, migliora perfino l’apnea nel sonno cui  spesso l’aritmia è collegata, ma in quel “structural” essi prospettano anche l’ipotesi che la stessa parete dell’atrio migliori nella sua intimità, come si evince indirettamente da una recente ricerca sui cambiamenti degli atri nelle pecore.

Chissà, forse una diminuzione del grasso o della sclerosi infiltranti, oppure le variazioni di alcune componenti metaboliche più complesse. In fondo, dicono quegli esperti, il regime dimagrante, se perseguito con regolarità, rimette in ordine i grassi, riduce la pressione alta, ricompone un’intolleranza agli zuccheri e anche un diabete più o meno manifesto. Insomma, volendo elevare un’iperbole a quella ricerca all’apparenza banale ma superba nei risultati, la si potrebbe paragonare a un’impresa napoleonica, ove dopo la vittoria in battaglia si innescava un nuovo ordinamento politico. A dimostrare il quale però nei nostri fibrillanti non sarà facile, per ora accontentiamoci di vigilare la gola e la bilancia.

Eligio Piccolo
Cardiologo