DIMMI COME MANGI…
di Ivan Battista
29 Gennaio 2013

Il cibo ha sempre assunto una molteplice serie di significati nel tempo. Ai nostri giorni, non fa eccezione. C’è da rilevare che, in periodi di scarsità, l’abbondanza (anche generica) di viveri diventa uno status symbol; mentre, invece, quando la produzione di derrate alimentari è troppa ed alla portata di chiunque, sono la raffinatezza e la qualità alta del cibo ad assumere valenze “nobili”.
Come tutti gli esseri viventi, anche l’Uomo si è dovuto confrontare con il rifornimento delle calorie atte a garantire la buona salute e la sopravvivenza. In quanto costante, tale necessità è entrata a buon titolo nelle caratteristiche culturali di ogni popolo. Lo studio delle ricette e dei modi di cucinare porta, con sicurezza, a comprendere molto bene sia lo zeitgeist sia la koiné dei diversi gruppi umani. Nel frammentario Satyricon attribuito a Tito Petronio, nel libro XV, famosa è la descrizione del momento conviviale che Trimalchione (oggi lo definiremmo un parvenu della classe dei ricchi) offre ad una variegata e “pittoresca” presenza di ospiti, per lo più liberti. Lo scialo delle portate è secondo solo alla presunzione della loro “ricercatezza” ed al modo in cui esse vengono presentate ed offerte.

Nel medio evo, invece, i signori non mangiavano frutta oppure ortaggi, perché erano giudicati prodotti che avevano troppo a che fare con la terra e, in sostanza, cibo della classe povera contadina. I nobili, neanche a dirlo, si ammalavano di quelle malattie tipiche (pellagra, scorbuto, gotta ed anche tumori, forse allora non meglio conosciuti), conseguenza della scarsità di assunzione di vitamine, contenute in gran concentrazione proprio nella frutta e nei prodotti da orto.
Il regime alimentare, dunque, piuttosto che una rappresentazione delle proprie ambizioni sociali, deve essere considerato come la migliore delle prevenzioni contro l’avvento della cattiva salute. Fare del moderato ma costante movimento aerobico, mangiare sano e in quantità corretta (né poco né tanto, le diete severe sono da evitare, perché utili solo a far aumentare di peso) è il miglior pacchetto d’azioni garantista di un benessere che può aiutarci a vivere con agilità i nostri differenti, e a volte duri, impegni.
Anche a livello personale il cibo assume simbologie e significati (spesso inconsci) che possono portare alla malattia. Molte persone lo utilizzano come “ansiolitico” e, di conseguenza, lo usano per sedare i loro stati di inquietudine. Sappiamo che la prima esperienza di nutrizione nel bambino è legata all’allentamento del segnale di fame che l’organismo dà.

Quindi, il circuito psicologico è: percezione della fame – dolore – senso di pericolo e di ansia generale – nutrizione – annullamento del dolore – abbassamento dell’ansia e del senso di pericolo generale. Le esperienze primarie sono un imprinting che ci portiamo dietro per tutta la vita. A volte la nostra esistenza, fin dal suo esordio è avara di cure e di attenzioni e ci espone ad intensi stress emotivi oltre che fisici. L’antidoto è l’amore che fornisce quel senso di tranquillità, conseguenza della protezione e della considerazione ricevute, validissimo antagonista dell’ansia. Quando non si è ricevuto sufficiente affetto e lo si continua a ricevere con scarsità, spesso si attuano comportamenti regressivi tipici della prima infanzia. Uno dei più tipici è l’introiezione del cibo quale “rito primario” illusoriamente reputato in grado di battere il malessere dovuto alla frustrazione e alla percezione di pericolo o di ansia generalizzata, attivata dalla carenza affettiva. Si mangia, spesso compulsivamente, per compensare una scadente considerazione di sé, alla ricerca di un piacere che non riusciremmo a procurarci in altro modo: un amore confermativo e gratificante, del successo nel lavoro, un’ottimale espressione della propria capacità creativa, una grande considerazione sociale che vorremmo avere e che, invece, ci sfugge in parte o completamente etc.

L’educazione al cibo, ancor prima di insegnarci la chimica degli alimenti e i suoi giusti abbinamenti con le quantità corrette, dovrebbe cominciare proprio da qui: svelare i significati più profondi legati al nutrimento. La consapevolezza delle proprie dinamiche psicologiche nascoste, in effetti, potrebbe favorire la migliore delle impostazioni e la risoluzione di quei casi che noi specialisti denominiamo “nevrosi polifagiche”; di quelle microcosmiche tragedie di vita, cioè, (e sono molte più di quanto possiamo immaginare) dove mangiare è diventato un sistema compulsivo ed errato che cerca di esorcizzare le proprie sofferenze esistenziali attraverso il piacere di assaporare alimenti “buoni” e “consolatori”, in genere i più ricchi di grassi e di zuccheri. Lipidi e glucidi, di loro, non sono “veleni”, ma lo diventano quando si assumono in quantità eccessive. Allora si trasformano in sostanze in grado di portare a malattie gravi e invalidanti: diabete, obesità, osteopatie, aterosclerosi, incidenti ischemici cerebrali e cardiovascolari. La migliore delle diete (o sarebbe meglio dire: il miglior regime alimentare) è quella che fa parte integrante di una globale situazione psicologica di vita serena ed equilibrata che non si nega il piacere di piatti squisiti, ma che non ne fa un uso smodato, perché non eleggerà detto piacere quale unico in grado di donare appagamento, felicità e contentezza.
In conclusione, aumentare la consapevolezza e risolvere i propri stati di disagio psicologico, scegliere una modalità di vita improntata ad un costante e non esagerato dinamismo fisico, integrato da un regime alimentare piacevole, vario e misurato nelle quantità è la migliore risposta all’antico e ammonente proverbio italiano che recita: “Ne uccide più la gola che la spada”.

Ivan Battista
Psicologo, psicoterapeuta, docente presso la Scuola Medica Ospedaliera,
Ospedale Santo Spirito, Roma