DIABETES, DISEASES AND DIET
di Eligio Piccolo
12 Giugno 2018

Scusate l’inglese, ma le tre “D” vengono meglio e non tolgono nulla alla comprensione  dei commenti che oggi si fanno su questa subdola malattia, il diabete mellito. La quale ci accompagna fin da quando il medico di altri tempi la poteva diagnosticare solo assaggiando l’urina di chi vi perdeva lo zucchero. Allora, tranne la dieta, si poteva fare  ben poco per curarla e il malato correva il rischio di immolarsi nel coma ipo o iperglicemico.

Da molti anni fortunatamente i farmaci orali e l’insulina, resa facilmente dosabile e iniettabile, curano bene sia la malattia che i comi, divenuti una rarità e ben prevedibili. Oggi i problemi del diabetico e del diabetologo sono altri, ossia le conseguenze che la patologia di per sé determina nel facilitare le complicazioni cardiovascolari e, poiché si vive più a lungo, nell’accorciare questo vantaggio.

Considerando la prima “D”, diabete, le statistiche informano che il suo peso globale nel mondo è notevole, calcolato in 333 milioni di persone nel 2005, asceso a circa 435 nel 2015, con un incremento quindi del 30.6%, e con un aumento della mortalità conseguente alla malattia stessa da 1.2 a 1.5 milioni di casi.
In Italia Enzo Bonore, presidente della Società di Diabetologia, riferisce un’incidenza di 1.5 milioni di casi nel 1985 (circa il 2.5% della popolazione) e di 4 milioni attualmente, cui andrebbe aggiunto un milione di casi non diagnosticati, per un totale di 5 milioni (8.3% della popolazione). Percentuale quindi più che triplicata in trent’anni e che, secondo le extrapolazioni statistiche basate sul suo andamento, raggiungerebbe l’11% nel 2030, ossia 7 milioni.

Una malattia senza dubbio frequente, che si manifesta soprattutto nell’età adulta e avanzata, generata sia da fattori famigliari che dalle cattive abitudini alimentari, le quali si sono a loro volta inserite nella trasmissione genetica. Il diabete, distinto nel tipo 1, detto anche giovanile e più collegato ai fattori ereditari, e nel tipo 2, detto senile e più dipendente da quelli alimentari, il quale però è presente in misura preoccupante anche nei giovani, come ci documenta un recente studio svedese, nel quale la sua incidenza nei primi 19 anni di vita è aumentata, nel decennio 2002-2012, da 28  a 34 casi su 100.000 soggetti di quell’età.

La seconda “D” riguarda le malattie collegate a questo disturbo metabolico, che sono in particolare quelle cardiovascolari con l’infarto in pole position. E che sono state ben analizzate da un altro studio svedese nel periodo 1998-2014, dal quale risulta che, dati i progressi medici, la mortalità cardiaca è scesa di ben 136 casi annuali su 10.000 diabetici, con migliori risultati per il tipo 2, che è meglio gestibile con le raccomandazioni sullo stile di vita, rispetto al tipo 1 che dovrebbe rivalersi di più sui cromosomi e sugli antenati. Lo stile di vita tuttavia è ancora poco considerato ed è perciò che la medicina insiste nel cambiare certe abitudini alimentari.

La terza “D” infatti è la dieta, che ci riporta ai secolari consigli di evitare gli zuccheri puri, le bibite dolci, contenere i farinacei, non ingrassare e fare attività fisica. Tutti sacrosanti, ma che oggi ci vengono proposti con migliori cognizioni in una specie di dieci comandamenti, dettati da Renata Micha e dal suo gruppo del Nutrition Science di Boston. I quali, analizzando la mortalità per cause metaboliche e cardiovascolari negli USA durante il dodicennio 2000-2012, ne hanno calcolato l’influenza delle abitudini sbagliate, che sono per importanza e in misura via via decrescente:

1- il troppo sale dei cibi;
2- lo scarso uso di noci e affini;
3- l’eccesso di carne;
4- lo scarso uso di pesce e dei cibi ricchi di omega 3 (salmone, tonno, ecc.);
5- la poca verdura e 6- poca frutta;
7- le bevande zuccherate;
8- gli scarsi cereali;
9- i pochi grassi insaturi (oli di oliva o vegetali);
10- le carni rosse, ribadite per esaltarne la loro peggiore influenza osservata in questa analisi dei ricercatori del Massachusetts.

Noi però, che siamo al di qua dell’Atlantico, immersi nel mare nostrum, non ci siamo ancora preoccupati di fare questo tipo di sofisticatissima valutazione epidemiologica. Forse per pigrizia, ma anche perché, orgogliosi dei risultati ottenuti con la nostra dieta mediterranea, oramai oggetto di tutte le raccomandazioni in ogni parte del mondo. Dieta che per scoprirla gli Yankees hanno messo in moto la loro  migliore macchina di ricerca, potremmo con benevola spocchia rivolgerci all’ovest facendo il gestaccio dell’ombrello. Che certamente non facciamo, non tanto per la nobiltà che ci attribuiamo fin delle antiche Scuole Ippocratica e Salernitana, quanto perché noi, povera gente, siamo arrivati alla pasta, alla pizza, alle orecchiette con le cime di rapa, ai risotti, ai gustosissimi piatti di verdure, ai cannoli e alle tante altre prelibatezze, forse di più perché costretti dalle necessità storiche e ambientali che da spontanei ingegno e fantasia. Che certamente abbiamo sviluppato nei secoli e che oggi sono il nostro fiore all’occhiello.

Eligio Piccolo
Cardiologo