L’evidenza a supporto dell’uso cronico dei betabloccanti nei pazienti con infarto miocardico senza scompenso cardiaco o disfunzione sistolica ventricolare sinistra deriva da studi randomizzati orami datati e condotti prima dell’introduzione delle strategie invasive di riperfusione e degli agenti antitrombotici nella terapia dell’infarto del miocardio. Per tale motivo la capacità di questi farmaci di ridurre i tassi di mortalità potrebbe non essere più mantenuta nell’attuale contesto clinico. Tale problematica è stata approfondita dal registro svedese SWEDEHEART, recentemente pubblicato su Heart (1), che ha indagato l’associazione tra terapia con beta-bloccanti ed esiti cardiovascolari oltre il primo anno dopo l’infarto del miocardio, in pazienti senza insufficienza cardiaca o disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, basandosi sull’analisi di una coorte nazionale di oltre 40.000 pazienti.
Lo studio ha incluso tutti i 43.618 pazienti, di età pari o superiore a 18 anni, ricoverati per infarto del miocardio, sia STEMI che non-STEMI, in una delle 74 unità coronariche svedesi tra il 2005 e il 2016. L’età media dei paziente era di 64 anni e il 25,5% era di sesso femminile. Il follow-up è iniziato al termine del primo anno successivo al ricovero per infarto (data indice) ed è durato una mediana di 4,5 anni. Sono stati esclusi dall’analisi i pazienti che nel corso del primo anno dopo l’infarto hanno presentato insufficienza cardiaca o disfunzione sistolica del ventricolo sinistro. Al termine del primo anno i pazienti sono stati quindi assegnati in due gruppi in base al trattamento o meno con beta-bloccanti. Complessivamente, il 78,5% dei pazienti ha ricevuto un beta-bloccante e il 21,5% non lo ha assunto. L’end point primario dello studio era la combinazione di mortalità per tutte le cause, infarto del miocardio, rivascolarizzazione non programmata e ricovero per insufficienza cardiaca.
Nell’analisi intention to treat il tasso non aggiustato dell’end point primario è risultato inferiore tra i pazienti che avevano ricevuto un beta-bloccante rispetto a quelli che non lo avevano ricevuto (3,8 contro 4,9 eventi/100 anni-persona; rapporto di rischio [HR], 0,76; 95 % intervallo di confidenza [CI], da 0,73 a 1,04). Tuttavia dopo gli aggiustamenti statistici il rischio di occorrenza dell’end point primario non variava in base al trattamento o meno con tali farmaci (HR, 0,99; 95% CI, da 0,93 a 1,04). Tale risultato si manteneva coerente anche nei singoli endpoint secondari (i vari componenti dell’end point primario considerati singolarmente, la mortalità cardiovascolare e lo stroke) e nei vari sottogruppi di pazienti presi in considerazione (prespecificati in base a sesso, tipo d’infarto e tipo di trattamento interventistico intraospedaliero, presenza di ipertensione, diabete, fibrillazione o flutter atriale, precedente infarto).
Secondo gli autori dello studio il mancato effetto protettivo dei betabloccanti deriva dal fatto che la riperfusione coronarica, oramai praticata routinariamente e precocemente, combinata con le potenti terapie antiaggreganti attualmente in uso, riducono le dimensioni dell’infarto e quindi diminuiscono al minimo la sovraregolazione dell’attività simpatica, in particolare in quegli individui che non subiscono un danno miocardico sostanziale. Viene quindi meno il presupposto fisiopatologico al potenziale meccanismo benefico con cui i beta-bloccanti possono migliorare gli esiti cardiovascolari dopo l’infarto del miocardio, comunemente attribuito all’inibizione dell’overdrive simpatico, all’abbassamento della frequenza cardiaca e conseguentemente alla riduzione del consumo di ossigeno del miocardio. Inoltre, i beta-bloccanti possono associarsi a diversi effetti collaterali, tra cui depressione e affaticamento, e quindi la loro sospensione potrebbe anche influire positivamente sulla qualità di vita dei pazienti.
L’ ampio campione di pazienti inclusi e la durata del follow up conferiscono valore a questo studio nonostante la limitazione imposta dal suo disegno osservazionale, anche perchè i risultati sono in linea con quelli di una recente meta-analisi (2) di studi contemporanei che hanno affrontato la stessa tematica. Sebbene tali dati non siano sufficienti a decretare la fine definitiva dell’epopea del betabloccante nel post infarto a funzione contrattile preservata, tuttavia stimolano tutti noi a rifuggire dall’uso routinario ed acritico di tali farmaci.
Bibliogtafia:
- Ishak D, Suleman A, Lindhagen L et al. Association of beta-blockers beyond 1 year after myocardial infarction and cardiovascular outcomes. Heart 2023;0:1–7. doi:10.1136/heartjnl-2022-322115
- Kim Y, Byun S, Kim H-Y, et al. Long-term beta-blocker therapy after myocardial infarction without heart failure in the reperfusion era-systemic review and metaanalysis. J Cardiovasc Pharmacol 2022;79:650–4.