Quali siano i valori ottimali di pressione arteriosa (PA) da ottenere nei pazienti diabetici al fine di ridurre il rischio di complicanze vascolari è da molto tempo oggetto di accesa discussione. I due partiti che si contrappongono scientificamente sull’argomento propendono rispettivamente per un trattamento più intensivo con PA sistolica (PAS) target < 120 mmHg o per un atteggiamento più conservativo con obiettivo di una PAS < 140 mmHg. I dati disponibili in letteratura sull’argomento non hanno finora definitivamente chiarito la problematica. I due principali studi disponibili al riguardo, ad esempio, hanno infatti fornito risultati conflittuali. L’ACCORD (1), in pazienti con diabete tipo 2, non ha mostrato un beneficio significativo del trattamento intensivo nella prevenzione delle malattie cardiovascolari (CV). Lo SPRINT (2), invece, condotto in pazienti non diabetici, ha mostrato una riduzione degli eventi CV quando la PAS era < 120 mmHg. Va però segnalato che l’ACCORD per problemi metodologici aveva uno scarso potere statistico di individuare differenze tra i due gruppi e che il suo risultato potrebbe anche essere stato influenzato dalla concomitante randomizzazione dei pazienti a trattamento ipoglicemizzante intensivo o standard.
Alla recente sessione dell’AHA è stato presentato il BPROAD Trial (3), studio cinese che si è prefisso di investigare ulteriormente il problema nei pazienti con diabete tipo 2, per valutare se il trattamento intensivo (PAS < 120 mmHg) è in grado di fornire maggiore prevenzione CV rispetto a quello standard (PAS < 140 mmHg). Tra il 2019 ed il 2021 12.821 pazienti con diabete tipo 2, PA elevata (PAS tra 130 e 180 mmhg se già in trattamento o ≥ 140 mmhg se non in terapia) ed aumentato rischio CV (presenza di precedente storia di malattia CV, due o più fattori di rischio CV o malattia renale cronica (CKD) con GFR tra 30 e 60 ml/min) sono stati inclusi nello studio. L’outcome primario era la combinazione di ictus non fatale, infarto miocardico non fatale, trattamento o ricovero ospedaliero per insufficienza cardiaca o decesso per cause cardiovascolari. Gli outcomes secondari includevano ictus fatale o non fatale, infarto miocardico fatale o non fatale, trattamento o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, morte per cause cardiovascolari, morte per qualsiasi causa e un composito espanso dell’esito primario o morte per qualsiasi causa. Gli outcomes renali erano: 1) progressione della CKD (un composito di malattia renale allo stadio terminale, GFR < 15 ml/min o una riduzione del GFR > 50% rispetto al basale) nei pazienti con CKD al basale; 2) sviluppo di nuova CKD (GFR < 60 ml/min e calo > 30% del GFR rispetto al basale) non precedentemente presente; 3) albuminuria (un raddoppio del rapporto albumina-creatinina urinaria da un valore < 10 ad uno > 10) indipendentemente dalla preesistenza o meno di CKD. 6.414 pazienti sono stati randomizzati al trattamento intensivo e 6.407 a quello standard, l’età media era 63,8 anni, il 45% del totale era di sesso femminile, il 22,5% dei soggetti aveva una precedente storia CV, il follow up (FU) mediano è stato di 4,2 anni. Ad un anno la PAS media era rispettivamente 121,6 nel gruppo intensivo (GI) e 133,2 mmhg nel gruppo standard (GS) e nel GI il 60% dei soggetti aveva PAS < 120 mmHg.
Nei circa 4 anni del FU l’outcome primario si è verificato, rispettivamente, in 393 (GI, 1,65 eventi per 100 persone/anno) e 492 pazienti (GS, 2,09 eventi per 100 persone/anno, hazard ratio 0,79, p < 0,001) con separazione delle curve di Kaplan-Meier dopo un anno dalla randomizzazione. L’ictus, fatale e non, è stato meno frequente nel GI (1,19 eventi per 100 persone/anno vs 1,5 eventi per 100 persone/anno, hazard ratio 0,79). Non si sono invece rilevate differenze significative riguardo a morte totale (169 pazienti, 0,69 eventi ogni 100 anni-persona nel GI e 179 pazienti, 0,73 eventi ogni 100 anni-persona nel GS, hazard ratio 0,95) o end points renali. Sebbene l’ipotensione fosse più comune nel GI (0,1% vs < 0,1%, p = 005) l’incidenza cumulativa di eventi avversi non ha presentato differenze tra i due gruppi.
La conclusione degli autori è che in pazienti con diabete tipo 2 ed aumentato rischio CV il trattamento intensivo della PA con obiettivo di PAS < 120 mmHg riduce del 21% l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori.
Lo studio BPROAD, replicando i risultati dello studio SPRINT, mostra che i pazienti diabetici ricevono lo stesso beneficio dei non diabetici da un trattamento aggressivo della pressione arteriosa e che quindi gli obiettivi pressori dovrebbero essere gli stessi per tutti. E’ dunque verosimile che nel prossimo futuro le linee guida recepiranno tale informazione abbassando ulteriormente i livelli pressori raccomandati nei pazienti con diabete. D’altro canto età e condizioni del paziente devono essere sempre considerate quando si decide quanto bassa debba essere la pressione sanguigna, poiché in sottogruppi particolari (anziani, pazienti fragili) il rischio di eventi avversi (cadute e ipotensione su tutti) può essere comunque aumentato.
Bibliografia:
- The ACCORD Study Group. Effects of intensive blood-pressure control in type 2 diabetes mellitus. N Engl J Med 2010; 362:1575-85.
- The SPRINT Research Group. A randomized trial of intensive versus standard blood-pressure control. N Engl J Med 2015; 373: 2103-16.
- The SPRINT Research Group. Final report of a trial of intensive versus standard blood-pressure control. N Engl J Med 2021; 384: 1921-30.
- The BPROAD Research Group. Intensive Blood-Pressure Control in Patients with Type 2 Diabetes N Engl J Med DOI: 10.1056/NEJMoa2412006