Gli anglosassoni, sempre più stringati dei latini nelle loro definizioni, questa volta ci hanno battuto nell’indeterminatezza usando l’espressione “life purpose”, dove il termine “purpose” comprendeva più significati: scopo, intenzione, fine, decisione, risolutezza. Mentre invece l’italiano con la parola ‘voglia’, il francese con ‘envie’ e lo spagnolo con ‘deseo’ sono più vicini agli antichi romani, maestri di concisione. E come abbiamo più volte scritto in queste pagine, i nostri alleati occidentali, che hanno creduto in Galileo quando noi lo stavamo “giustiziando”, si impegnano, e si divertono pure, ad applicare il suo metodo scientifico in ogni ricerca. Sia in quelle che hanno fatto loro scoprire i vaccini e la penicillina, oltre alle tante macchine ed esami del progresso medico, sia nelle più fantasiose, che sconfinano volentieri nella psicologia e nella filosofia. Come per l’appunto lo studio nordamericano capeggiato da Aliva Alimujiang dell’Università di Michigan (JAMA 2019), nel quale si è cercato di dimostrare, con analisi scientifiche si capisce, ciò che da sempre dalle nostre parti il popolo propone nell’adagio: “cuor contento il ciel l’aiuta”.
I ricercatori di Ann Arbor, la cittadina michiganese che negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso era la fucina dove si forgiarono gli studi fondamentali per l’interpretazione dell’elettrocardiogramma clinico sotto la guida di Frank Norman Wilson, hanno voluto verificare se la stessa metodologia poteva essere applicata nella valutazione degli anziani con maggiore o minore interesse per il futuro. Essi hanno indagato in quasi 7000 soggetti (57.5% donne), di età fra 51 e 61 anni, nati fra il 1931 e il 1941, quale era stato il loro destino, messo in rapporto al modo con cui hanno affrontato negli anni successivi le vicende della vita. Lo studio porta l’acronimo HRS (Health and Retirement Study), indicativo quindi dello stato di maggiore o minore benessere dopo l’età che prelude e segue il ritiro dal lavoro. La classificazione dei vari soggetti, effettuata durante il reclutamento, era guidata da un questionario con test psicologici, secondo una scala da uno a sei di buona o precaria disposizione. Quei test, già sperimentati in sondaggi analoghi sui disturbi del sonno, della depressione e sui postumi dell’ictus, mandano sempre in solluchero gli americani, mentre noi europei, genitori dei Freud e degli Jung, li applichiamo per lo più con una dose di scetticismo e il sorrisetto sulle labbra.
Le conclusioni, tratte dopo anni fra il 2018 e il 2019, quando l’età media di quei 7000 reclutati era di 69 anni, indicarono con felice meraviglia che chi aveva pensato in positivo andava incontro a meno malattie e viveva più a lungo in confronto ai demotivati. Le cause patologiche più incidenti nei “pessimisti” erano come al solito le cardiovascolari e le tumorali. Ed erano in sintesi la “logica” conseguenza di risposte all’iniziale questionario, quali “le mie attività quotidiane mi paiono spesso banali”, oppure “vivo la vita giorno per giorno e non penso al futuro”, o meglio “mi piace fare progetti per il futuro e lavorare per renderli realtà”.
La stessa coordinatrice della ricerca Celeste Leigh Pearce avverte che gli scopi, i “purpose”, variano da persona a persona, sono in rapporto alle differenti comunità, al successo, alla reputazione, alle relazioni, alla spiritualità e gentilezza, presenti nella vita di una persona. “Pertanto”, dice la Celeste, “non c’è una definizione specifica universale”. E aggiunge che “altri studi hanno dimostrato che l’avere pochi scopi nella vita si associa a più elevati livelli di marcatori infiammatori, gli ormoni dello stress, e anche una maggiore lunghezza dei telomeri”. Questi ultimi, per i molti che non ne hanno mai sentito parlare, sono una specie di cappuccio a protezione dei nostri cromosomi, i quali tanto più a lungo agiscono tanto più si vive.
“Giunto al fin della licenza, io tocco”, diceva il Signore di Bergerac, ed io, modestamente armato di fioretto veneto, meno gentile ma più esplicito, direi che: “chi nasse desfortunà se bagna el cul anca stando sentà (seduto)”. Il quale ci riporta a quanto faceva capire la Pearce, ossia che molto del nostro comportamento negli anni della “decadenza” è legato al carattere, alla propria formazione, in una parola alla genetica e alla sua epifania. Qualche sempliciotto si domanderebbe in questi casi se è nato prima l’uovo o la gallina. Va comunque dato atto che i neofiti del Michigan confidano molto nelle loro e nostre buone volontà e propositi. Così come sottolinea Gianfranco Ravasi, grande pensatore oltre che eminente Cardinale Pontificio: “la vecchiaia è triste non perché cessano le gioie, ma perché finiscono le speranze”.
Eligio Piccolo
Cardiologo