L’antica pianta himalayana
di Comitato Scientifico del C.L.I.

Negli anni ’50 è iniziata la moderna terapia dell’ipertensione arteriosa grazie alla scoperta, una volta tanto non casuale, delle proprietà farmacologiche delle radici della rauwolfia, una liana originaria dell’Himalaya, molto diffusa in India. Di questa pianta si conoscono circa 150 specie, ma solamente la serpentina ha importanza terapeutica. Il suo uso è antichissimo, già undici secoli a.C. veniva usata contro le punture degli insetti e contro il morso dei serpenti velenosi. I santoni himalayani la prescrivevano da tempo immemorabile come tranquillante nella cura delle malattie nervose e mentali, da cui il nome “pagal-ka-dawa”, erba contro la follia. Nella medicina ayurvedica era usata come purgante, nelle Filippine veniva presa dalle giovanette per sviluppare il seno. Tutte queste indicazioni sono riportate nel Tshakara Samhita, un trattato scritto a cavallo tra il II e il I secolo a.C. dal medico del re Kaschita. Il dottor Rauwolf portò la pianta in Europa senza fortuna nel XVI secolo, le dette solo il nome. In tutto l’Oriente si vendevano le radici, di sapore amaro e dall’odore simile a quello della patata, da masticare o per farne decotti. I medici indiani, probabilmente suggestionati dalle terapie dei santoni, hanno sempre studiato le proprietà della pianta e, nel 1933, dimostrarono l’attività ipotensiva degli estratti di radice. Dopo il millenario uso empirico, nel 1946 la rauwolfia venne inclusa nell’Indian Farmacopeial List e due farmacologi statunitensi, che ne avevano studiato le caratteristiche in India durante la guerra, portarono le radici in Occidente con maggior fortuna del dottor Rauwolf. I numerosi alcaloidi isolati, attivi prevalentemente a livello del sistema nervoso centrale, provocano deplezione di catecolamine, abbassamento della pressione arteriosa e hanno effetto bradicardizzante. L’azione sedativa-ipnotica, legata alla diminuzione della serotonina cerebrale, si manifesta prima di quella ipotensiva e persiste più a lungo. Un alcaloide, l’ajmalina, possiede effetti antiaritmici chinidinosimili. Il trattamento può provocare diversi disturbi quali spossatezza,, vertigini, nausea, diarrea, congestione nasale, miosi, riduzione della libido. La resurpina è oggi quasi abbandonata, ma il suo interesse farmacologico è stato grandissimo perché ha permesso di chiarire svariati meccanismi che intervengono nella regolazione della pressione ed ha aperto la strada alla scoperta di gran parte dei farmaci antipertensivi attualmente in uso. Alla resurpina, insieme alla clorpromazina, va anche il merito della rivoluzione che vi è stata negli ultimi quarant’anni nella terapia psichiatrica. Partendo dall’antichissima “erba della follia” si è giunti alla scoperta di moltissimi psicofarmaci e alla possibilità di trattamento della psicosi.