La travagliata storia degli anticoagulanti
di Comitato Scientifico del C.L.I.

Dalle erbe, e in modo ancor più imprevedibile, parte un altro importante capitolo della terapia cardiologia oggi quanto mai attuale, quello degli anticoagulanti. I contadini, specie nelle regioni collinari, hanno sempre saputo che se le vacche mangiano trifoglio fermentato possono presentare chiazze emorragiche sul corpo. Un veterinario canadese, che aveva osservato più volte il fenomeno, nel 1924 stabilì che le emorragie erano provocate da un temporaneo difetto della coagulabilità del sangue. La scoperta non destò alcun interesse al di fuori del campo veterinario fino al 1941, quando venne scoperto che il responsabile era un fungo presente nella muffa che si formava durante la fermentazione del trifoglio falciato, il quale trasformava la curarina delle foglie in dicumarolo, sostanza che inibisce la formazione della protrombina rendendo il sangue in coagulabile. Questa scoperta interessò i medici assai più dei veterinari. Poiché si era visto che il dicumarolo aveva sull’uomo gli stessi effetti osservati nei bovini, immediatamente si intravide la possibilità di ridurre la coagulabilità ematica e di impedire così la formazione dei trombi, in particolare di quelli che complicavano l’aterosclerosi coronaria responsabili della maggior parte dei casi di infarto miocardio. A partire dall’inizio degli anni ’50 l’entusiasmo per le concrete possibilità di prevenzione di quella che era diventata la più diffusa malattia cardiaca e la principale causa di morte, divenne grandissimo, anche se le esperienze cliniche riportavano risultati incostanti e inferiori alle attese. Dopo alcuni anni di prove, Laurence, grande farmacologo clinico, scrisse che “le palesi difficoltà che si incontrano nel tentativo di dare dimostrazione obiettiva dei benefici ottenuti, stanno a indicare che, nella migliore delle ipotesi, i risultati devono essere modesti”. Nonostante i dubbi e le incertezze, la maggioranza dei cardiologi seguitava a riporre grandi aspettative nella terapia anticoagulante. Alcuni restavano fiduciosi sulle possibilità di prevenzioni, altri sostenevano che anche se non sempre preveniva l’infarto, la terapia anticoagulante ne riduceva l’estenzione e la gravità, altri ancora si dimostravano certi della sua capacità di evitare il reinfarto. Le dispute circa l’utilità della terapia sono durate a lungo. A dimostrazione citiamo l’editoriale del British Medical Journal del 1959 che scriveva: “il valore della terapia anticoagulante nelle prime settimane dopo l’infarto è ormai ben documentato”. Un altro editoriale apparso nella stessa rivista quattro anni dopo era di diverso avviso: “il trattamento dell’infarto senza anticoagulanti ha il merito della semplicità ed è pienamente giustificato da attendibili indagini. Questa condotta consente a tutti i medici di attenersi al fondamentale principio del primum non nocere”. Dopo cinquant’anni la controversia non è conclusa anche se la terapia anticoagulante nell’infarto ha trovato validi motivi di rilancio con l’avvento dei farmaci trombolitici, è divenuta indispensabile dopo l’angioplastica, dipo gli interventi di rivascolarizzazione chirurgica, nei portatori di protesi valvolari e, se non esistono controindicazioni, nei pazienti con fibrillazione striale.