Nonostante l’impegno degli anatomopatologi, le conoscenze cliniche fecero scarsi progressi. Nel 1847, Latham si esprimeva in questi termini: “Le nostre conoscenze sull’angina di petto si fermano ai suoi sintomi. La sua essenza non si può riassumere in alcuna forma definitiva al di fuori di essa. Noi siamo sicuri che essa è come un insieme di sintomi. Noi non siamo sicuri che essa è come una malattia”. Le lesioni miocardiche infartuati non erano ancora entità nosologiche a sé stanti: l’infarto restava genericamente una sincope, una paralisi, una specie di colpo apoplettico del cuore. Il termine infarto del miocardio entrò in clinica per la prima volta nel 1897 quando Pierre Marie pubblicò la sua tesi di alurea “L’infarctus du myocarde et ses conséquences”. La priorità dei francesi venne però contestata. Il primo a fare diagnosi d’infarto sarebbe stato lo statunitense Hammer. Il 5 maggio 1876 (si conosce anche l’ora, le 9 del mattino) chiamato a visitare un ammalato con marcata bradicardia e “con progressivo e regolare decorso del collasso”, pensò ad una diminuzione dell’apporto nutritizio al cuore, evidenza che non poteva che essere provocata dall’occlusione trombotica di una coronaria. Impossibile stabilire se la destra o la sinistra, ma era convinto che si trattasse di una sola coronaria perché se fossero state colpite entrambe l’attività cardiaca avrebbe dovuto diminuire più rapidamente o cessare. “Di diagnosi come questa non ne ho mai sentito parlare in vita mia” gli rispose il collega al quale aveva formulato la sua ipotesi diagnostica. “Nemmeno io”, gli rispose Hammer. L’ammalato sopravvisse per altre 19 ore. Il permesso per l’autopsia fu ottenuto limitatamente al cuore. Venne trovato un trombo che occludeva l’imbocco della coronaria destra. Hammer pubblicò il caso due anni dopo, nel 1878. Anche la paternità di Hammer è stata contestata. Cinque anni fa gli svedesi hanno pubblicato una cartella clinica del 1859, riguardante il caso di un uomo di sessant’anni che aveva goduto perfetta salute fino al giorno della morte della moglie. Rimasto vedovo cominciò ad avvertire dolori sempre più frequenti alla regione retrosternale. Dopo un attacco più prolungato degli altri divenne prima pallido, poi cianotico e in pochi minuti morì. L’autopsia mise in evidenza l’occlusione di una coronaria e la necrosi di un’estesa zona del miocardio. Al di fuori delle osservazioni occasionali, la prima descrizione clinica completa di un’improvvisa occlusione coronaria deve essere considerata quella classica di Herrick (J.A.M.A., 1912). Vale la pena ricordare che nel primo dei casi riferiti da Herrick si trattava di un’ischemia miocardia silente. Nel 1920 Pardee descrisse per la prima volta le anomalie dell’elettrocardiogramma tipiche dell’infarto miocardio e la loro evoluzione nei casi che sopravvivevano all’attacco. Willem Einthoven, professore di fisiologia all’università di Leida, poco soddisfatto degli strumenti allora disponibili per registrare le correnti elettriche prodotte dall’organismo, mise a punto il “galvanometro a corda”, un apparecchio che permetteva di registrare correnti di piccola ampiezza, dell’ordine di pochi millivolt, cioè della grandezza di quelle prodotte dal cuore e registrabili sulla pelle. Lavorò attorno al suo apparecchio per quindici anni, creando l’elettrocardiografia. Nel 1925 Einthoven, in visita in un ospedale di New York, si commosse fino alle lacrime vedendo l’infermiera che aveva sviluppato il tracciato forografico dell’elettrocardiogramma di un autista, fare diagnosi di infarto acuto del miocardio senza nulla sapere dell’ammalato. Nel 1924 la sua scoperta era stata coronata dal premio Nobel per la medicina.
Jean Baptiste Herrick