Il paziente che vi incorre oggi non è certo paragonabile nei disagi al “Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern e ai suoi commilitoni durante la ritirata di Russia nell’inverno ’42-’43, tramandati anche dalle “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi.
I rischi a causa della neve e del freddo in quelle steppe desolate a meno 20 gradi, equipaggiati in modo che gridava vergogna ai responsabili dell’ARMIR, che nonostante tutto fu gloriosa, sono altra cosa. Anche perché quei poveri soldati, per lo più giovani, rimanevano invalidi o morivano per congelamento, raramente credo per infarto al cuore. Le loro coronarie, snellite dai digiuni e dalla fatica, erano ben diverse da quelle dei giovanottoni americani, alimentati a scatolette e colesterolo, finiti in Corea e nei quali fu visto che le arterie erano già placcate di grasso, a futuro rischio. Nemmeno gli “intrepidi“ atleti che si lanciano nei fuoripista o si arrampicano sui ghiacciai a perpendicolo possono venire paragonati al paziente attuale. Le moderne ricerche, pubblicate in questo tempo di pace e di benessere, sono rivolte invece agli sciatori ludici e più ancora agli spalatori della neve.
Due ricerche canadesi degli ultimi anni, infatti, una dall’Ontario e l’altra dal Quebec, zone dove il parallelo e le nevicate caratterizzano da sempre la meteorologia dei mesi da novembre ad aprile, hanno ripreso in mano le cartelle cliniche di coloro che in quel periodo rimanevano vittima di ischemia o di infarto durante le nevicate associate al freddo.
La prima ci viene dal Kingston General Hospital che ha rivalutato nel 2012 cinquecento pazienti, ricoverati per sindrome coronarica acuta durante due precedenti stagioni fredde, riscontrando che il 7% era stato colto dal male mentre spalava la neve. Segnalano però che l’età media era di 65 anni, quindi anzianotti, che i due terzi erano uomini e che molti avevano una familiarità per malattie cardiovascolari. Persone quindi, non certamente atleti, che uscite di casa la mattina dopo la tormenta notturna si sono accinte a spalare la neve per liberarne l’uscita.
L’altro studio più recente (2017) proviene dall’Università di Montreal e ha rivalutato la mortalità per infarto durante un periodo di ben 33 anni, dal 1981 al 2014. Da questo risulta che tali decessi erano più frequenti il giorno dopo le nevicate, e tanto più quanto queste erano durate e quanta più neve era caduta. Si confermava anche in questa indagine la maggiore frequenza di maschi e di spalatori, mentre non aveva particolare rilievo né l’età né i precedenti di malattia familiare o personale dei malcapitati.
Nel nostro paese gli incidenti, spesso mortali, sono dovuti, come ho detto, quasi sempre alle imprudenze degli sciatori e dei rocciatori, ma sono stati segnalati anche alcuni casi di infarto, specie mentre i malcapitati spalavano la neve. Su costoro conviene soffermarsi perché l’atto stesso da manovale ci consente di individuare i meccanismi che mettono in difficoltà il cuore, specie se ha già avuto qualche sofferenza o la sta covando.
Lo spalare è uno sforzo fisico che i medici definiscono con una parola difficile “isometrico”, la quale dal greco significa che il muscolo in attività non si allunga né si accorcia come nell’attività aerobica o di resistenza (marcia, nuoto, ecc.), ma mantiene la sua lunghezza di riposo ingrossandosi. Viene anche definito sforzo di potenza o anaerobico, rappresentato emblematicamente dal sollevamento pesi, ma anche dallo spalare la neve, durante i quali si verifica un particolare impegno del cuore, specie se vi si associa il freddo che con la vasocostrizione aumenta ulteriormente la pressione.
Naturalmente, come spesso avviene nella fisiologia umana, le sue varie reazioni non sono tagliabili con l’accetta. In altre parole, gli sforzi di potenza o di resistenza non lo sono al cento per cento, ma ognuno dei due ha anche una percentuale dell’altro.
Così, ad esempio, lo sci di fondo, che rispetto a quello normale non è alleggerito dalla discesa, è in parte anche isometrico dovendo vincere quel faticoso scorrimento orizzontale che impegna molto la potenza. Ricordo un collega, non più giovane e non allenato ad alcuno sport, il quale all’arrivo da una garetta amatoriale di fondo, durante una delle indimenticabili Giornate Aritmolgiche di Marilleva, vi giunse così stremato da doversi poi riposare e disertare l’impegno culturale del pomeriggio. Non successe nulla, ma dopo qualche anno, colpito da un accidente vascolare, mi ci fece ripensare. E non sarà mai superfluo tener presente che quasi tutte le attività sportive, ammirate con invidia alla TV in chi vi eccelle e si allena, possono essere imitate anche dallo spettatore, ma senza dimenticare però l’età, la prudenza e la preparazione, spesso trascurate da chi va a cimentarsi dopo aver fatto tutt’altro.
Eligio Piccolo
Cardiologo