Berengario da Carpi: disegnò i muscoli papillari, le corde tendinee e le valvole del cuore
di Comitato Scientifico del C.L.I.

Nel frontespizio della celebre Anathomia Mundini, testo ufficiale per quasi tre secoli, si vedono tre protagonisti: il sector, rozzo cerusico armato di coltello che seziona il cadavere; l’ostensor, che indica gli organi con una bacchetta, e il lector, il maestro che sovrasta la scena dall’alto della cattedra consultando un testo galenico. Nel caso che emergessero discordanze fra il reperto settorio e ciò che era scritto nel libro, la ragione spettava a quest’ultimo: l’autorità di Galeno non poteva essere messa in discussione. Quando Andrea Vesalio pubblicò a Basilea nel 1543 la sua “De umani corporis fabbrica” riprese lo stesso frontespizio apportandovi alcuni cambiamenti: non c’è più l’ostensor mentre il maestro, messo da parte il testo, ha impugnato il coltello del cerusico eseguendo lui la sezione. Vesalio pagò duramente la ribellione a Galeno. Il tribunale dell’Inquisizione lo condannò a morte; il re Filippo II, che non nascondeva le riserve nei confronti della Compagnia di Gesù, riuscì a fargli commutare la pena in un pellegrinaggio in Terra Santa da dove Vesalio non fece ritorno. Fra Mondino e Vesalio si colloca Berengario, che la maggior parte degli studiosi considera semplicemente un precursore di Vesalio, sia pure il più grande fra i tanti, ma il giudizio è ingiusto e riduttivo perché Berengario fu il vero contestatore di Galeno. Fu certamente più avveduto e scaltro di Vesalio e, soprattutto, non aveva la vocazione al martirio per la scienza; non solo non subì biasimi né condanne per le sue innovazioni, ma morì onorato e ricchissimo. Non a caso ebbe i natali a Carpi, cittadina della bassa modenese i cui abitanti hanno sempre goduto meritata fama di furbizia e abilità, intorno al 1460. Il suo vero nome era Giacomo Barigazzi; figlio di un chirurgo, aveva nel sangue la passione per l’anatomia. Adolescente si dilettava a sezionare i maiali per studiarne gli organi. Fu intimo amico di Alberto Pio il “Dotto”, signore di Carpi, e per otto anni seguì gli insegnamenti umanistici ed estetici di Aldo Manuzio, futuro principe degli stampatori. Fu grande amico anche di Ugo da Carpi, poco più giovane di lui, famoso incisore, insieme si trasferirono a Bologna dove Ugo si dedicò alla xilografia e Berengario venne nominato lettore di anatomia. Era un grandissimo lavoratore: a Bologna seguitò a praticare la chirurgia portando, grazie alle sue conoscenze anatomiche, continui perfezionamenti alle tecniche operatorie. Portò per primo disegnatori di sua fiducia in sala di dissezione. Berengario adottò, com’era inevitabile, l’Anatomia di Mondino dei Luzzi, ma già nel 1514 dette alle stampe il testo ampiamente revisionato col sottotitolo “per carpum castigata”. L’edizione del 1521 che intitolò “Commentaria super anatomia Mundini” presentava due peculiarità: i commenti superavano di gran lunga il testo e, novità assoluta, c’erano ventuno figure. Non si sa chi sia l’autore delle incisioni: data la differente qualità, è verosimile che siano più di uno, tra i quali anche l’amico Ugo da Carpi, il tipografo Gerolamo Benedetti e lo stesso Berengario che Benvenuto Cellini giudicò dotato di “molta intelligenza del disegno”. Chiunque sia stato non vi è dubbio che Berengario sia l’ideatore dell’illustrazione del libro anatomico. Haller, insegnante di anatomia a Gottinga, scrisse “primis etiam icones anatomicas paravit”. Prima di lui l’aveva detto Falloppio, forse esagerando un po’ negli elogi per spirito campanilistico. Indubbiamente Berengario apportò varie modifiche al celebre frontespizio mondiniano: fu lui a far scendere il lector dalla cattedra e a porlo vicino al tavolo anatomico, a far scomparire il superfluo ostensor e promosse protagonista il sector. Visto il successo dei Commentaria, un anno dopo Berengario dette alle stampe le “Isagogae breves”: riducendo il testo da 528 pagine fittamente stampate a 72, agevolmente leggibili, secondo gli insegnamenti di Aldo Manuzio. Il successo dell’opera fu vastissimo; dopo un anno uscì la seconda edizione bolognese e, contemporaneamente quella fatta a Venezia, seguita da tre successive a Strasburgo. Non si trattava solo di un condensato gradito agli studenti, le differenze più importanti erano nel testo. Nel frontespizio cambiò gradualmente la gerarchia dei ruoli, aumentò la distanza fra lettura e dissezione, e ribadì ancor più esplicitamente ciò che aveva asserito nella prima edizione dei Commentaria: l’anatomia non può essere acquisita “per solam vocem aut per scriptum”, ma sono indispensabili “visus et tactus”. La sua opera fa costantemente appello all’uso della dissezione e alla verifica dell’empirico: il modello di insegnamento e di apprendimento dell’anatomia da lui proposto si distacca radicalmente da quello dei suoi predecessori. Cambiò radicalmente i protagonisti della lezione di anatomia e, per primo, riportò nel trattato l’iconografia. Con grande avvedutezza aggiunse al centro del frontespizio lo stemma della famiglia Medici, sulle colonne ai lati mise il nome del pontefice regnante, Leone X e, a garanzia di totale immunità, dedicò l’opera al cardinale Giulio de’ Medici. Nessuno fra i fanatici di Galeno, né fra gli ostinati oppositori della sezione dei cadaveri, osò muovergli critiche né tanto meno accuse. Berengario ci sapeva fare in tutti i campi, anche ad di fuori dell’anatomia. Fu il chirurgo di tre papi, trasse rilevanti guadagni da un unguento di sua invenzione che, a detta di Falloppio, gli rese “quinquaginta millia ducatorum aureorum”. Per invito di Clemente VII accorse a Piacenza per curare Giovanni dalle Bande Nere ferito in battaglia ad una gamba, andò a curare Lorenzo duca di Urbino colpito alla testa da una pallottola di archibugio. Anche se non eseguì personalmente l’intervento, la notorietà che gli derivò dalla guarigione lo indusse a scrivere il “De fractura calvae sine cranei”, trattato di neurochirurgia in cui affrontò, prima di Paré, le nuove problematiche poste dall’impiego delle armi da fuoco. Si era fatto la mano da neurochirurgo, eseguendo più di cento craniotomie su cadaveri. Con questo studio dimostrò l’inesistenza della “rete del miracolo” che Galeno poneva alla base del cervello con la funzione di filtrare gli spiriti animali dagli spiriti vitali. Sapeva ottenere compensi adeguati dalla sua opera: per le cure al cardinale Colonna ricevette il “San Giovanni nel deserto” di Raffaello. Aggiungendo mercurio alla sua pomata acquistò grande fama come sifiloiatra. Scrisse il Cellini nell’autobiografia: “capitò a Roma un grandissimo cerusico, il quale si domandava maestro Jacomo da Carpi. Questo valente uomo, in fra gli altri suoi medicamenti, prese certe disperate cure di mali franzesi. E perché questi mali in Roma sono molto amici dé preti, massime di quei più ricchi, fattosi conoscere questo valente uomo, per virtù di certi profumi mostrava di sanare meravigliosamente queste cotai infirmità, ma voleva far patto prima che cominciassi a curare; i quali patti erano a centinaia e non a decine”. Restò a Roma sette mesi. Il papa l’avrebbe voluto nominare archiatra, ma Berengario gli rispose che non stava al servizio di nessuna persona al mondo. Chi aveva bisogno di lui poteva chiamarlo in ogni momento. Già il Cellini si accorse che era persona molto astuta: “saviamente fece a andarsene di Roma, perché non molti mesi appresso, tutti quelli che egli aveva medicato si condussero tanto male che era peggio di prima: sarebbe stato ammazzato, se fermato si fussi”. Partì al momento giusto e “con dimolte migliaia di ducati”. Nuovi onori e onorari raccolse alla corte di Ferrara. Aveva innata l’arte dell’autopromozione. Affermava di aver sezionato “molte centinaia di cadaveri”, cifra sulla quale non pochi hanno avanzato dubbi. Sicuramente operò innumerevoli porci per studiare il cuore, cogliendo per primo la rassomiglianza con quello dell’uomo. Grazie all’osservazione diretta dei cadaveri corresse i principali errori sull’anatomia. I contributi che portò alla descrizione del cuore finalmente considerato l’organo centrale della circolazione del sangue, illustrati da quattro tavole in cui si vedono le valvole e i muscoli papillari, furono una tappa fondamentale nelle conoscenze non solo della morfologia, ma anche delle funzioni cardiache. Prima di Berengario tutti credevano ancora all’esistenza del terzo ventricolo e nell’esistenza del setto medio perforato da molti fori che lasciavano passare il sangue più tenue. Questo fu Jacopo Berengario, carpigiano geniale, abilissimo nel cogliere tutte le migliori opportunità che, con straordinario acume, unì la vocazione per gli studi anatomici con la pratica artigiana della chirurgia. Considerava il chirurgo, alla lettera, un lavoratore manuale; coltivò con passione gli studi umanistici e, a detta del Cellini, “parlava meravigliosamente della medicina”. Non era immune dalla millanteria, fece enormi guadagni e, dotato di naturale avarizia, acquisì immense ricchezze, assai apprezzate nella sua città. Fra le tante qualità, rimane nella storia anche per essere stato il primo illustratore dei trattati di medicina.